La vita e le poesie dimenticate, ma indimenticabili, di Kadya Molodowsky

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19 Marzo 2017

Esiste una galassia ebraica che purtroppo negli ultimi decenni è stata trascurata se non addirittura cancellata, e questo per lasciare spazio alle spesso feroci dispute all’interno dell’autoreferenziale dibattito “comunitario” o a quello avvelenato sulle questioni mediorientali, in specie israelo-palestinesi. Complimenti quindi alle edizioni Free Ebrei che con il titolo di “Sono una vagabonda” hanno appena pubblicato la prima traduzione italiana (a cura di Alessandra Cambatzu e Sigrid Sohn) delle liriche scelte di una grande poetessa e scrittrice yiddish, Kadya (Kadye in yiddish) Molodowsky.

«Cadono gocce dal mio tetto, / mi svegliano e mi fanno paura, / e parlano, mi pregano: / siamo gli occhi della pioggia, / vieni a farci una carezza, vieni a farci una carezza. / Cadono lacrime sul mio letto, / cadono dai miei occhi, / e non so cosa sto pregando, / e non so il perché». Ma al di là delle liriche e dei testi contenuti in queste 224 pagine, è di assoluto interesse il percorso e il contesto che l’impianto di note ci offre. Dalla presentazione della professoressa Kathryn Hellerstein dell’Università di Philadelphia apprendiamo che Kadye nasce nel 1894 nello shtetl di Bereza Kartuska (Grodno, Russia bianca, zona di residenza ebraica russa, oggi Bielorussia). Il padre Isaac è insegnante di Talmud e di ebraico nonché fervente sionista. La madre Itke è una colta commerciante, figlia di nonna Shifre, orgogliosa di essersi garantita una propria indipendenza facendo l’insegnante. Un mondo di donne forti.

Fierezza di genere. «Le unghie incarnate hanno bordi neri, / come tutte le donne impoverite che grattano le pignatte bruciate. / Anch’io ho dita giallognole, / ossute che portano una cesta. / E occhi sofferenti come un sacco vuoto. / Il mattino incontro portatrici di latte, / con bidoni d’argento / cha abbassano le loro spalle, / e una vicina all’altra sopportiamo il carico pesante, / come asini muti, a stretto contatto, / chinando pesantemente le teste fino al suolo. / Anch’io ho dita giallognole, / ossute che portano una cesta».

Kadye si forma come pedagogista a Varsavia, Odessa, Kiev, e a sua volta sale in diverse cattedre sia di yiddish che di ebraico. Sposa lo storico comunista Shimche Lev e con lui torna a Varsavia. Intanto scrive, è una delle pochissime donne a conquistare un ruolo sulla scena letteraria. Kadye e Shimche si trasferiscono per un breve periodo a Parigi e nel 1935 emigrano negli Stati Uniti, prima a Philadelphia dove lei raggiunge le sorelle e il padre, poi nel 1938 con il marito a New York. Con l’angoscia degli echi dell’orrore che investe gli ebrei in Europa, dal 1939 la disperazione inizia a minare la psiche e il corpo dell’intellettuale 45enne facendola scivolare nell’autolesionismo, che tuttavia coincide con alcune sue eccelse raccolte poetiche. Nel 1949 Kadye e Shimche “salgono” in Israele e si stabiliscono a Tel Aviv. Nonostante i riconoscimenti – grande successo hanno le poesie per bambini, tradotte in ebraico e divenute assai popolari –, la delusione per il disinteresse (se non addirittura l’astio) del neonato Stato per lo yiddish considerato a lungo la lingua dei ghetti e della sottomissione, oltre alle scarse prospettive di lavoro per il marito fanno durare la loro aliyah solamente pochi anni. Così nel 1952 ripartono per New York dove Kadye continua a lavorare, rilanciando tra l’altro la rivista “Svive”, “L’ambiente”, che aveva contribuito a fondare vent’anni prima. Negli anni Sessanta e Settanta l’interesse per la cultura e la letteratura yiddish inizia a rifiorire e la scrittrice passa da una conferenza all’altra. Muore nel 1975, un anno dopo la scomparsa del caro Shimche.

«Una vecchia, pazza abitudine – le poesie, / la prima riga viene da sé, / mormora un movimento, una voce un’eco, / come se tutte le lettere indossassero le scarpe. / […] Ma non ho rimorso di nessuno dei miei amori. / Da ogni primavera i miei occhi serbano una fiamma / che mi riscalda in questa orribile notte fangosa, / in cui ogni strega batte sul suo tamburo. / Forse è giusto che ora stia di notte come un topo nel buco, / a New York, nell’East Side, in Ashford Street / e che senta il fracasso dei treni e il crepitio delle croste, / di tutti gli amori ormai sfioriti. / Sento i venti che suonano klezmer mansueti, / gli uccelli si muovono come macchie bianche, / mi scuoto – voglio ricevere consolazione, / ricevere consolazione, per coprire l’oscurità. / Di notte, di giorno, una notte, un giorno, / forse non sono ventiquattro ore, ma sono ruote pesanti. / Un giorno può passare, un cuore può spegnersi, / e forse, forse può accadere un miracolo».

Kadye Molodowsky, una esistenza che sembra un racconto di Bernard Malamud.

TAG: ebraismo, Kadya Molodowsky., poesia
CAT: Letteratura

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