A che serve il Teatro?

4 Luglio 2021

Cercare al buio qualcosa che non c’è, e trovarlo. Diceva più o meno così, col solito gusto del paradosso, il genio di Ennio Flaiano. E la definizione mi sembra più che mai calzante per il Teatro.

Riapro questa rubrica, per provare a riflettere proprio sul quel che resta, quel che è, semmai quel che sarà il Teatro. Non è questione solo per addetti ai lavori: il teatro è assembramento, è piazza, polis. Ovvero lo spazio e il tempo dell’incontro tra esseri umani.

Momento diverso dalla routine quotidiana, il Teatro richiede un “andare verso” che si tramuta in una sistematica presa di posizione: il Teatro richiede, esige addirittura, non solo di occupare un posto, ma proprio di prendere posizione, ossia schierarsi. Nell’anno passato, segnato dalla pandemia e dai lockdown, i teatri ci hanno aspettato. Sono stati là, nella splendida e viva immobilità della chiusura, in attesa. Sapevano, loro, che saremmo tornati prima o poi. Hanno pazientato.

E adesso, nella stagione della timida riapertura alla vita sociale, nel tempo faticoso della convalescenza dal trauma e dai lutti, il Teatro è pronto più che mai a offrirsi per essere e vivere.

L’altro giorno, nel programma della Biennale Teatro diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte, ho avuto modo di incontrare e intervistare il Maestro Krzysztof Warlikowski, Leone d’Oro 2021. Alla fine di una bella conversazione (quanto meno bella per me: il regista e autore è ricco di una visione speciale, di uno sguardo aguzzo e profondissimo sulla realtà e la scena) ho chiesto di dare una definizione di “Teatro”. E Warlikowski non ha esitato un istante: il “teatro è un ospedale”, ha detto sornione. Il luogo dove ci curiamo e curiamo. Si cura chi lo fa, e certo si cura chi vi assiste, chi vi partecipa.

Lo spettacolo cui avevamo assistito la sera prima dell’incontro, il bellissimo We are leaving, tratto da Suitcase Packers, di Hanoch Levin, è un affresco struggente di esistenze sospese in attesa di una possibile speranza, di morti raccontati nella gabbia della vita. È un compianto, scandito da funerali. “Tutta la compagnia di attori e attrici muore in questo spettacolo”, spiega Warlikowski: tutti o quasi, sono pochi quelli che riescono davvero a partire, o a dare l’estremo saluto agli altri. Una celebrazione del Lutto, dunque: rituale tornato amaramente “d’attualità” nei mesi del Virus falcidiante. Allora il teatro è l’ospedale dove far scorrere umanissime lacrime, dove provare a “elaborare”, laddove possibile, il dolore stesso. La catarsi? Forse, ma non solo. Non è un caso che il tempio di Esculapio fosse accanto al teatro di Epidauro. Ma non si tratta solo di superare le passioni, come insegnava Aristotele, semmai il contrario. Provare a viverle fino in fondo, quelle passioni: tenerle presenti e vive nella nostra mente, raccontarle e condividerle addirittura nella forma antica del racconto. Il Teatro è la passione condivisa. È lo spazio del racconto, dunque della memoria che torna nel tempo e si attua sempre di nuovo come condivisione. Dove accade altrettanto? Di fronte a una serie Netflix? Non credo, proprio no. Mettere a confronto teatro e piattaforme televisive è come barattare il mistero con la banalità, la seduzione con la pornografia, la imprevedibilità spiazzante del non garantito con il finto arbitrio su programmi e possibilità già stabilite nella “bolla” dell’uguale: che noia sfogliare l’eterna proposta di Netflix, no?

Ecco perché il Teatro è lo spazio della ricostruzione individuale e collettiva, ecco perché si fa prospettiva politica. Abbiamo rinunciato a tante libertà, in nome della salute, della sicurezza, della salvaguardia della nostra capacità produttiva. Ora si tratta, e con forza, di recuperare, di riagguantare la vita. Abbracciarsi, stringerla con le unghie e coi denti e difenderla con le arti della nostra cultura. Ritrovando la visione, l’ascolto, la poesia, il rito stesso. Scrive il filosofo coreano Byung-Chul Han che, nella comunità “erosa” e produttiva in cui viviamo, sono scomparsi i riti. Eppure abbiamo una struggente nostalgia per i riti che “si lasciano definire in termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’essere-nel-mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile … Riordinano il tempo, lo aggiustano”. Ecco, il Teatro, ecco quel che troviamo nella stanza buia di cui parlava Flaiano: una casa, il nostro stare, il nostro essere.

 

Alla Biennale Teatro 2021 è attivo, assieme a molti altri, anche un workshop di scrittura critica, durante il quale proviamo – assieme a un manipolo di giovani e giovanissimi laboratoristi – a riflettere su alcuni dei temi che ho intrecciato anche per questo articolo. Gli esiti di scrittura si trovano qui.

La foto di copertina è di Magda Hueckel

TAG: Biennale Teatro, Byung Chul Han, Covid, Ennio Flaiano, Krzysztof Warlikowski, Ricci/Forte
CAT: Teatro

3 Commenti

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  1. dino-villatico 3 anni fa

    Bellissima riflessione. Ma per Aristotele non si tratta affatto di “superare” le passioni, bensì di conoscerle. Questo è la catarsi, la conoscenza di sé stessi. Il dolore che ci annienta nella vita, rappresentato, e dunque conosciuto, ci dà piacere (Aristotele parla proprio di piacere, per quanto strano possa sembrare): il piacere della consapevolezza.

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  2. andrea.porcheddu 3 anni fa

    giustissimo caro Villatico, grazie! Mi tenevo alla traduzione classica e consolidata di Aristotele: “mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni”, definendo malamente “superare” quel “sollevare e purificare”. Ma certo sono d’accordo!

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  3. dino-villatico 1 anno fa

    Grazie della risposta, Caro Porcheddu, che pur troppo leggo solo oggi, 30 0tt0bre 2022. Non è questo lo spazio per un dibattito. Ma sì per un breve corollario. Per secoli l’affermazione aristotelica è stata interpretata “moralmente”, mentre invece Aristotele insiste sulla consapevolezza, la conoscenza, che si ottiene in molti modi, anche attraverso il piacere della rappresentazione, l’emozione di assistere come se si vivesse, ma senza il rischi del vivere. Per questo arte, poesia, teatro sono modi del conoscere. Attuale come non mai questa impostazione che ci libera sia dall’ossessione del realismo sia dalla costrizione di un limite morale. I censori di tutti i tempi sono serviti. E non solo quelli morali, ma soprattutto quelli politici, il politically correct non fa parte, nemmeno per Aristotele, del bagaglio della conoscenza.

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