All’alba la buca era scavata.
Romain Gary, Educazione europea
Se si potesse evitare il florilegio degli anniversari, se si potesse evitare l’inutile dichiarazione di nuovi undici settembre. Sarebbe necessario e urgente farlo. Se si potesse smettere di occuparsi proditoriamente e continuamente di cementificare la memoria rendendola inutilizzabile e farlocca, addormentata e stupida. Sarebbe necessario e urgente farlo.
La storia e la vita non sono anniversari e gli anniversari non sono riti dentro cui è più possibile sostenere il senso di una comunità espansa e differenziata. La memoria non si costruisce contenendola e forzandola dentro regimi di relazione plastificati e privi di ogni biologia, ma accogliendo il presente in uno scambio fluido e generativo con l’esperienza. Rifugiarsi nel passato idealizzato o in un futuro sperabile è già scappare, farsi ingabbiare e in buona sostanza mettersi in pericolo.
Il presente richiede coraggio e calma, cura e grazia, lo ha sempre richiesto è parte della sua stessa natura imprevedibile. Il presente oggi fa paura, troppa paura, ma è anche banalmente e obbligatoriamente quello che è e come tale va necessariamente affrontato: calma, cura e grazia.
“Siamo tutti in pericolo”, lo eravamo anche prima, ma ora ci pare di più. Questa frase è stata pronunciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa intervista a Furio Colombo in quell’ultimo scampolo di modernità che fu la fine del Novecento dentro al quale era ancora possibile percepire il pericolo, ma non risolverlo e tanto meno comprenderlo. È necessario uno sforzo di percezione, troppi rimossi albergano in una memoria collettiva distante da quello che è il nostro corpo biografico personale e intimo. Ritrovare noi stessi nel punto in cui siamo ora e non nel punto in cui eravamo o speravamo di essere, ritrovare il nostro corpo e ritrovarne la politica.
Accettare il presente e la sua lotta, accettare il nostro corpo, accettare la diversità delle nostre stesse contraddizioni. Il dolore e la felicità sono ora, il godimento e lo strazio sono ora e non possono essere rimandati, dimenticati o abbandonati per la strada come ammennicoli o medaglie prive di alcun valore.
Non saranno i morti di Parigi a risvegliare e in realtà nemmeno a spaventare veramente. Nessun morto, nessuna strage, nessuna violenza, nessuna atrocità può farlo veramente. Ci si trova sempre in questo rifugio, in questa bolla retorica. Troppo tutelati, protetti e nascosti in quanto già troppo sfiniti e sfiancati, annoiati e stressati. E il racconto, lo storytelling è ormai un cliché costretto in una stancante e continua prevedibilità. Una narrazione buona solo a trovare spazio in qualche rassicurante casella del passato e in qualche onorificenza e ricordo glassato per il futuro.
L’arte narrativa è morta scriveva sempre Pasolini e forse qui più che in ogni altra riflessione c’è il senso più profondo di un dolore. Un’impotenza, quella di una forza del passato impossibilitata a incidere davvero nel presente, rinnovandolo quotidianamente. Il presente ci appartiene è bene ricordarcelo, ed è bene affrontarlo anche con le nostre paurose armi spuntate. Sarà la nostra presenza a renderci vivi, non la nostra forza. Il presente ci appartiene, Paris nous appartient, diceva Jacques Rivette.
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