La storia di Kevin Carter e il dilemma del fotogiornalismo
Quanti di voi hanno sentito parlare del Bang Bang Club?
Nel mondo del giornalismo e soprattutto in quello del foto-giornalismo, il nome di questo gruppo di fotografi non è di certo nuovo, ma nelle scuole dove si insegnano tali materie molto spesso viene affrontato sul finire dei corsi oppure come una storia forse troppo vicina per poter essere classificata come realmente importante.
Siamo negli anni ’90, quattro giovani sudafricani hanno deciso di raccontare la guerra con le loro macchine e i loro obiettivi. Sono Kevin Carter, Greg Marinovich, Ken Oosterbroek e Joao Silva.
Quattro professionisti, quattro amici, quattro reporter che hanno scelto di svolgere la loro attività nei momenti più difficili della guerra civile in corso nel paese africano: quello intercorso tra liberazione di Nelson Mandela e la sua elezione a presidente. Da una parte l’ANC (African National Congress), il partito di colui che sarà ricordato come il padre dell’Africa intera, e dall’altra l’Inkktha Freedom Party, formato per la maggioranza da etnia zulù. Due tappe importanti: il referendum del 1992 e le elezioni del 1994 con cui è stato superato il sistema dell’Apartheid.
In una guerra civile del genere hanno perso la vita migliaia di persone, nel modo più barbaro possibile. A documentare tutto quello che è successo c’erano i ragazzi del Bang Bang Club, con la loro intraprendenza e la loro sfrontatezza sono sempre stati nel posto giusto al momento giusto, hanno raccontato al pubblico internazionale una situazione drammatica, hanno vinto diversi premi, certo, e hanno pagato anche pegno per tutto ciò che hanno visto e hanno impresso sulle loro pellicole.
Una delle foto più famose è del 1993 e si intitola “The vulture and the Little girl” (qui sopra), fu pubblicata sul New York Times e vede una bambina sudanese collassata per la malnutrizione mentre si reca ad un centro di alimentazione dell’ONU, mentre un avvoltoio attende a pochi passi da lei.
A scattarla fu Kevin Carter che all’epoca aveva appena 33 anni. Nella sua vita aveva già provato su di sé le macchie d’odio della società sudafricana, lui un bianco in una società che stentava a diventare multietnica e di questo ogni giorno moriva, pezzo dopo pezzo. Iniziò come fotografo sportivo e poi decise che la sua strada sarebbe stata un’altra, avrebbe testimoniato con la sua arte e la sua macchina fotografica le guerre in corso nel suo continente e tutte le crudeltà che avvenivano nel disinteresse generale. Nel 1984 iniziò a collaborare con il Johannesburg Star dove conobbe coloro che, assieme a lui, sarebbero diventati gli unici membri un club molto speciale. Kevin Carter era un fotoreporter, questo lo investiva di un compito enorme, doveva documentare le scene più atroci che si potessero immaginare: esecuzioni sommarie, uccisioni a colpi di machete, impiccagioni e la tortura dello pneumatico, di cui fu il primo a parlare tra i giornalisti di fama internazionale. “Ero sconvolto vedendo cosa stavano facendo. Ero spaventato per quello che io stavo facendo. Ma poi le persone hanno iniziato a parlare di quelle immagini… così ho pensato che forse le mie azioni non sono state poi così cattive. Essere stato un testimone di qualcosa di così orribile non fu necessariamente un male”, dichiarò Carter nei primi anni ’90.
Questo fu un momento di svolta nella sua vita. Egli non riuscì più a distinguere se le immagini che portava a casa, la freddezza con cui le scattava era un qualcosa di estremamente cinico ed egoista o un qualcosa di costruttivo, per il suo lavoro e per la società. Un dilemma abbastanza comune nel mondo del fotogiornalismo, ma anche uno dei pensieri che lo portarono a gravi disturbi mentali ed abuso di droghe. Nel 1993 Carter decise di uscire dal Sudafrica e andò in Sudan assieme a Joao Silva a documentare un’altra guerra civile, credendo, forse, di viverla con maggior distacco rispetto a quella in corso nel suo paese.
Fu così. Ma fu anche l’inizio della fine.
In Sudan nei pressi di Ayod, nel marzo 1993, scattò la fotografia che lo rese famoso, sulla cui origine egli stesso diede diverse versioni dell’accaduto. L’immagine vedeva una bambina morente e un avvoltoio, pronto ad approfittare della fine imminente di una vita. Kevin Carter era lì, a poca distanza. “Vedo tutto questo e tutto quello che riesco a pensare Megan (la sua giovane figlia ndr.)”, disse poco dopo aver scattato a Silva. Il suo mestiere – quello che fece – gli imponeva di trovare il momento giusto per scattare. La sua morale gli chiedeva di lasciare perdere tutto. E fu questo a portarlo in un turbine di malessere che non gli lasciò scampo.
Nancy Buirski era la direttrice fotografica del New York Times, fu lei a parlare per prima della fotografia scattata da Carter. Il suo giornale decise di pubblicarla nell’edizione del 26 marzo 1993 per illustrare un servizio sulla situazione in Sudan scritto da Donatella Lorch. Greg Marinovich che non era partito assieme ai due colleghi rimanendo in Sudafrica ricordò molto bene il momento in cui iniziò a diffondersi la fotografia. “L’hanno pubblicata giornali e riviste di tutto il mondo, la reazione del pubblico fu quella di inviare denaro a qualsiasi organizzazione umanitaria che avesse avuto un’operazione in Sudan”. In molti si chiesero anche quale fosse stata la sorte della bambina fotografata. Il New York Times pubblicò un editoriale in cui raccontò di come Carter avesse scacciato via l’avvoltoio per distogliere la sua attenzione dalla piccola.
Quando gli telefonarono per comunicargli che aveva vinto il Premio Pulitzer, Carter non capì nulla di quello che gli stavano dicendo, aveva peggiorato il suo abuso di droghe e la sua esistenza era ormai ridotta al limite. Poco tempo dopo morì Ken Ooserbroek, collega e amico del Bang Bang Club. Era il 18 aprile 1994.
Testimone di un’epoca, vittima del ragionamento sull’etica e sulla morale di un mestiere, Carter non riusciva a trovare il coraggio di andare avanti. Il 27 luglio 1994 salì sul suo pick-up e guidò fino al parco giochi in cui andava da bambino, collegò il tubo di scarico al finestrino e si lasciò morire. Aveva 33 anni.
Scrisse una nota prima di morire. Non era più sostenibile la depressione, la mancanza di soldi, “Sono ossessionato dai vividi ricordi di uccisioni e cadaveri, rabbia e dolore – scrisse nel biglietto di addio -, di bambini affamati o feriti, di pazzi dal grilletto facile, spesso poliziotti e carnefici assassini. Sono andato ad unirmi a Ken, se sono fortunato”.
Con la morte di Kevin Carter finì anche l’esperienza del Bang Bang Club. Nel 2010 Joao Silva, che aveva proseguito il suo lavoro da reporter, finì sopra una mina antiuomo in Afghanistan, e continuò a scattare anche nei momenti appena successivi all’esplosione. Gli vennero amputate entrambe le gambe.
L’unico a uscire indenne dall’esperienza del club sudafricano fu Greg Marinovich che è riuscito a terminare la sua carriera ritirandosi a vita privata. Per lui e per Joao Silva l’esperienza vissuta assieme a Carter e Oosterbroek è diventata un libro, da cui poi è stato tratto anche un film.
Epilogo:
Nel 1996 la band inglese dei Manic Street Preachers pubblicò una canzone intitolata Kevin Carter, dedicata al fotografo morto due anni prima. La canzone fu scritta da Richey Edwards, membro della band che pochi mesi dopo Carter scomparve nel nulla.
Nel 2011 venne chiarito che nella foto scattata da Kevin Carter era ritratto in realtà un bambino: Kong Nyong, che quel giorno del 1993 riuscì a trovare gli aiuti delle Nazioni Unite e sopravvivere alla denutrizione. Morì nel 2007 colpito da un tipo di febbre che non gli lasciò scampo.
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