Per un pugno di arance: le ruspe se ne vanno, gli schiavi sono ancora lì

12 Febbraio 2021

33 piccoli comuni e i volontari di ben tre ong – Emergency, Mediterranean Hope e Medici per i diritti umani – al lavoro tra tendopoli e baracche. Sembra un post terremoto, ma è la raccolta delle arance. Nella Piana di Gioia Tauro centinaia di braccianti africani vivono una vita zero. Zero acqua corrente, zero elettricità, zero riscaldamento. Soprattutto zero diritti. La chiamano emergenza, dura da 20 anni. Gli errori: tanti. Gli interessi: altrettanti. «Ma tra di noi c’è anche chi dai ghetti non vuole uscire», dice Ibrahim Diabate, ex bracciante, che ora si batte per voltare finalmente pagina.

Peppe Marra mi avverte subito: «Vuoi fare foto? Guarda che magari…». Mi mandano affanculo? Domando perché e Peppe, che fa parte del sindacato Usb e lavora da anni nella Piana di Gioia Tauro, mi spiega paziente: «Non gli piace essere trattati come fenomeni da baraccone. Dicono: sono già passati un mucchio di giornalisti, tanto non cambia mai niente…». Non fa una grinza. Repubblica, Stampa, Corriere; giornali calabresi doc come la ‘Nduja e mega testate internazionali come il Guardian e il New York Times: con gli articoli scritti su questa storia ci si potrebbe fare l’enciclopedia dei Quindici. Con i servizi tivù, una serie da dieci stagioni su Netflix. Ma quindi?

Quindi qui nella Piana, pochi chilometri a nord di Reggio Calabria, sembra di vivere dentro al cestello di una lavatrice: gira, gira, si torna sempre al punto esatto di partenza. Ogni anno, più o meno da vent’anni, ad ottobre arriva un esercito di braccianti africani per la raccolta di arance e clementine. Ogni anno lavorano in nero o in “grigio” e vengono pagati quattro spicci. Ogni anno finiscono a dormire dove capita: una tenda, un casolare abbandonato, una baracca. A marzo la stagione degli agrumi finisce e l’esercito riparte per andare a raccogliere qualcos’altro in qualche altro pezzo d’Italia. In mezzo: sei mesi d’inferno. Poi passa la primavera, l’estate e a ottobre, questi braccianti, che non sono scesi il giorno prima da un barcone ma sono spesso sempre le stesse persone che lavorano qui da anni, tornano nella Piana. E si ricomincia da capo.

I container di Maroni

A volte qualcuno s’incazza. E undici anni fa, in uno dei comuni più grossi, Rosarno, i braccianti s’incazzarono in massa quando due di loro vennero presi a fucilate con pallini ad aria compressa. Era il gennaio 2010: per tre giorni si scatenò una rabbia accumulata per anni: cassonetti e auto distrutte; case danneggiate a colpi di spranghe e bastoni. I rosarnesi reagirono e cominciarono a menare le mani pure loro. La polizia ci mise tre giorni a riportare in qualche modo la calma in paese.

I container di Rosarno che ospitano i braccianti

All’epoca il ministro degli Interni era il leghista Roberto Maroni e la prefettura allestì un campo container: un alloggio più dignitoso per i braccianti che al tempo vivevano in un ex fabbrica ed altri alloggi di fortuna, ma pur sempre una soluzione temporanea. Soluzione temporanea che, undici anni dopo, è ancora là, saldamente al suo posto.

«Ci stanno tre, forse quattrocento persone. Adesso qui è tutto autogestito direttamente da chi ci vive», mi dice Peppe, raccomandandomi appunto di andarci piano con le foto. I container, grigi come l’asfalto su cui sono poggiati, sono in un’area fuori Rosarno. Tutt’attorno immondizia e una fila di auto malconce usate non per andare in giro, ma come letti. A parte questo, un nulla fatto di lampioni e rotonde.

La “ruspata” di Salvini

Marra mi carica in macchina e da Rosarno ci spostiamo verso il mare, a San Ferdinando, altro piccolo comune della Piana. C’è una cosa importante che mi vuole far vedere. Qui infatti da anni la macchina dello Stato fa e disfa una tendopoli. Prima la fa per dare un tetto ai braccianti. Poi i braccianti si mettono ad aggiungere baracche perché nelle tende non c’è posto per tutti; così la tendopoli diventa prima una mezza baraccopoli, poi una baraccopoli intera e alla fine viene abbattuta. E allora via da capo, con nuove tende.

L’ultima volta, nel 2019, la tendopoli-baraccopoli di San Ferdinando era cresciuta talmente tanto da essere diventata un piccolo paese da 2.500 persone o giù di lì. E’ stato allora che un altro ministro degli Interni leghista, Matteo Salvini ha mandato le ruspe a spianarla. Nihil novum sub sole: altre baracche erano state abbattute una manciata di anni prima, nel 2014. Ma Salvini promise che stavolta si voltava pagina per davvero: «Mai più tende, non si può vivere così».

I resti della “ruspata di Salvini”

E’ finita che le tende ci sono ancora, giusto a qualche centinaia di metri da dove stava la baraccopoli prima. Baraccopoli che ora è ridotta a un cumulo di macerie che, piano piano, i camion stanno portando via. A dare una mano, per così dire, ci sono anche i braccianti africani: uno sotto i miei occhi si è caricato una bracciata di rottami sulla bicicletta. «Come per farci che? Per farci nuove baracche», mi spiega sempre Peppe Marra. Ah, ecco.

Vita da ghetto

«Pensa che lavoravo in una fabbrica a Ravenna, ero tranquillo e poi…», mi dice un bracciante le cui iniziali sono D.M. Poi il Covid, la crisi, e a 48 anni, con una laurea in lettere presa in Senegal e persa in qualche cassetto, D.M. ora si ritrova qui, con me, di fronte al cancello della tendopoli di San Ferdinando. Ascolto la sua storia: mi ricorda una battuta di un film di Woody Allen: «Se vuoi far ridere dio, raccontagli i tuoi progetti». Sicuramente questi non erano i suoi piani, quando 15 anni fa è arrivato in Italia. Guardo i tendoni blu dove Daouda vive adesso che raccoglie arance. E a proposito di storia e cultura ebraica, mi viene in mente una sola parola: ghetto.

La tendopoli di San Ferdinando

Anche la tendopoli, come i container, si trova in un deserto di rotonde e lampioni, in un’area industriale lontana da tutto e da tutti. La trasformazione in bidonville, come da tradizione, è cominciata: le prime baracche, “incellophanate” in teli di plastica per non far passare la pioggia, sono già spuntate. Appena fuori dal campo una pila di immondizie torreggia, altissima e puzzolente. «Sono arrivato qui un mese e mezzo fa. Ho visto il camion dei rifiuti solo una volta», mi racconta D.M. scrollando le spalle. Pure l’impianto elettrico vacilla. «La luce? C’è… poi va via… poi torna…», dice un po’ rassegnato. Ma aggiunge che l’acqua calda, almeno, non manca: «Compro quella che fanno dei ragazzi all’interno del campo coi bidoni e con il fuoco. Un bidone, 50 centesimi. Io faccio due docce al giorno: una al mattino e una alla sera, dopo il lavoro. Fa un euro al giorno…».

La doccia coi bidoni? Ma com’è possibile? Non dovrebbe essere un campo organizzato? Peppe, che da anni vede sempre lo stesso film non è affatto sorpreso: «E’ che ci saranno 600 persone, molte più di quelle che ci dovrebbero essere, e una decina di bagni. Tutte queste situazioni non sono accettabili normalmente, figuriamoci in tempi di Covid. Ma sai qual è la cosa più assurda? Se si considerano i soldi spesi tra tendopoli e container, cioè dal 2010 ad oggi, credo che avremmo ristrutturato tutte le case della Piana, ne avremmo pure costruite altre e non avremmo avuto tutti sti problemi».

I dannati di Taurianova

E i problemi invece non mancano. Tendopoli e container non bastano comunque per tutti. Molti braccianti, forse un migliaio o più, vivono nei cosiddetti insediamenti informali: perifrasi gentile che significa casolari abbandonati o baracche nascoste nella campagna. A pochi chilometri da Taurianova, il centro più importante della Piana di Gioia Tauro con i suoi 15.000 abitanti, negli anni è cresciuto un vero e proprio villaggio.

Quando ci arrivo, è ormai buio. Comincia a far freddo e qualcuno si scalda attorno a fuochi che ardono incessantemente in alcuni bidoni di latta. Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia molto attivo in quest’angolo di Calabria, da un po’, ha messo dei lampioncini elettrici. Finalmente si accendono e illuminano una distesa di lamiere, lastre di eternit, pezzi di legno: decine e decine di baracche, piantate in mezzo al fango, senza riscaldamento o allaccio alla rete elettrica. Così vivono circa 200 persone.

Di fronte a me, uno degli abitanti del villaggio, inginocchiato, sta lavando i piatti usando un bidoncino, riempito chissà dove. «Sai la cosa che mi ha fatto davvero arrabbiare?», mi chiede Ibrahim Diabate. Cosa? «A marzo 2020, in piena pandemia, quando non facevano che ripetere alle persone di lavarsi le mani, qua alla baraccopoli hanno tolto l’acqua perché l’allaccio era abusivo. Non possono votare, quindi di loro se ne fregano, questa è la verità. Quanti sono gli italiani che vivono in queste condizioni?»

Cinquanta centesimi a cassetta

Ibrahim, che è della Costa d’Avorio, viveva qui nel villaggio. Poi, passo dopo passo, la sua vita è cambiata: è andato a Torino, ha fatto altri lavori, altre esperienze. Oggi è tornato nella Piana come operatore di Mediterranean Hope. Ma gli anni passati a raccogliere arance e a dormire in baracca li ha piantati nella memoria come spine: «Alle quattro ti svegli, fai colazione e alle cinque sei già in marcia per andare al campo che magari dista chilometri e chilometri. Devi esser là per le sette, si va avanti a raccogliere fino alle quattro del pomeriggio».

Ibrahim mi ripete le stesse cose che ho già sentito da Peppe Marra: la fatica è tanta; la paga è poca, spesso in nero. Chi lavora a giornata prende tra i 30 e i 35 euro. Chi lavora a cottimo, invece, viene pagato cinquanta centesimi a cassetta per le arance o un euro e spicci per le clementine. «E chi fa il cottimo – mi spiega Ybrahim – non fa pause. Mangi con la mano destra, raccogli con la sinistra, tutto per fare più cassette possibile. Con il proprietario dietro che ti dice: dai, dobbiamo finire! E’ una forma di schiavitù moderna».

Uno dei tanti campi di agrumi tra Rosarno e San Ferdinando

Una parte di questo magro stipendio passa per le mani dei braccianti, ma finisce dritto dritto a qualcun altro: i caporali. «Chi sono? – Ibrahim mi risponde senza pensarci un secondo – I caporali degli africani sono altri africani che lavorano in complicità con i proprietari dei campi e che fanno affari con loro. Nella nostra cultura, devo essere grato a chi mi trova un lavoro, anche se si fa pagare. I caporali, per loro, sono persone che gli salvano la vita». E già che ci sono gli sfilano un po’ di quattrini: 3 euro e mezzo a giornata.

Il tempo, per i braccianti, scorre così: ogni giorno, dall’alba al tramonto, uguale all’altro: «Non ci sono sabati e domeniche – mi dice Ibrahim -. La stagione dura quattro, cinque mesi e devi lavorare. Riposi nello spostamento da una zona all’altra». Perché come termina la stagione degli agrumi in Calabria, gli stessi braccianti vanno a raccogliere qualcos’altro in Puglia, o al Nord.

Chi non vuole uscire dal ghetto

Mentre mi parla Ibrahim fissa intensamente le baracche. Capisco che lui è in grado di vedere cose che per me sono invisibili quando – senza che io gli chieda nulla – sgrana un ricordo e fa un’osservazione che mi prende in contropiede: «Sono arrivato a Rosarno con 1500 euro in tasca, non ho trovato casa e sono stato tra i primi a venire ad abitare qui. Era il 2010. Ci sono persone che conosco che vivono qui da dieci anni. Alcuni vogliono restare nel ghetto».

Fisso anch’io quelle baracche. Francamente non riesco a immaginare chi possa davvero voler stare qui dentro. Sono arrivato un’ora fa e già scapperei a gambe levate. Ma Ybrahim mi mostra un altro punto di vista: «Ci sono persone che non vogliono pagare affitto, luce e quant’altro, e farsi una vita normale. Guadagnano poco e mandano i soldi, tutti, in Africa, alla famiglia: mogli, figli, genitori. Magari un intero villaggio ha messo il danaro per il viaggio in Italia e loro devono restituire questi soldi e poi iniziare a partecipare alla crescita del villaggio: aiutare a costruire aule o a pagare un infermiere. Ci sono paesi, come il Mali, che pure è il terzo produttore di oro in Africa, che ha tanti paesi senza luce, scuola o una semplice farmacia. E qui, a Taurianova, sono quasi tutti maliani, a parte qualche ivoriano come me».

Ma ci sono anche quelli che Ibrahim non esita a chiamare i “furbi”: «Sono quelli che hanno soldi e possibilità di affittarsi una casa, ma non vogliono farlo, perché c’è questa possibilità di avere il gratis, quindi si presentano come miserabili e vivono di assistenzialismo. Quando hanno aperto la prima tendopoli nel 2010, tanti sono usciti dalle case, a Rosarno, e sono andati in tendopoli perché era gratis. C’ero e l’ho visto. Ma non puoi sempre vivere di assistenza…». Ecco perché, mi assicura Ibrahim, quella da combattere è una doppia battaglia: «Da un lato dobbiamo convincere gli italiani che questi braccianti sono lavoratori che soffrono, gente che si alza all’alba e ha il diritto di essere rispettata e trattata da essere umano. Dall’altro però dobbiamo convincere anche quegli africani che vorrebbero rimanere nel ghetto ad uscirne. Alcuni hanno cominciato ad affittare case: sono ancora pochi, però. Diciamo che il 50% vorrebbe avere una casa, il 10% sta bene nel ghetto, gli altri pensano a lavorare e basta…».

La povertà uccide

Più o meno un anno fa, in quello stesso villaggio di baracche nelle campagne di Taurianova che ho visitato assieme a Ibrahim è scoppiata una lite violentissima: Daouda Sylla, maliano, 31 anni, è morto. Non è stato l’unica vittima di questi ghetti. Tre persone erano morte nell’altra baraccopoli, quella spianata dalle ruspe di Salvini: Becky Moses, 26 anni, bruciata viva a gennaio 2018; Jaiteh Suruwa, 18 anni, bruciato vivo a dicembre 2018; Moussa Ba, 28 anni, bruciato vivo a Febbraio 2019. E a marzo 2019, nella tendopoli istituzionale, è morto anche Syllà Naumè bruciato vivo pure lui, nel rogo della sua tenda.

Negli ultimi mesi però l’emergenza sono gli incidenti stradali. La Piana sembra una Amsterdam, ma africana: ci sono sciami di biciclette ovunque, ma sulle due ruote ci sono praticamente solo loro, i braccianti. Niente piste ciclabili; l’asfalto non ha buche, ma crateri; l’illuminazione delle strade è quella che è. E le bici, tutte guidate da braccianti, spesso non hanno luci: invisibili, col buio, finiscono investite. Nelle ultime settimane, ci sono stati quattro incidenti fotocopia. Gassama Gora, 34 anni, non ce l’ha fatta: pochi giorni prima di Natale è stato travolto da un’auto, mentre percorreva in bici la strada verso casa, cioè la tendopoli di San Ferdinando.

La morte di Gassama, che veniva dal Mali, non ha scatenato il popolo del like e dell’hashtag: black lives matter, ma meglio quando sono in Usa e tocca agli altri fare qualcosa oltre a postare quadrati neri. Eppure ci sarebbe stato pure qui da indignarsi. O vergognarsi. Gassama pedalava come quasi tutti i braccianti che non hanno i soldi o le carte in regola per avere una macchina, pur lavorando tutti i giorni del calendario.

Sempre gli operatori di Mediterranean Hope stanno cercando di metterci una pezza, distribuendo fari e giubbotti catarifrangenti. «Ma bisogna uscire dalla cultura dell’emergenza. Ci vuole la politica, ci vuole una visione. Se no, posso distribuire lucine finché voglio, ma qui non cambierà mai niente», mi dice Francesco Piobicchi, un altro degli operatori di questa ONG.

Le lacrime della Bellanova

E la politica, in effetti, negli ultimi mesi ha battuto un colpo. A maggio 2020, il governo Conte ha approvato una norma fortemente voluta dall’allora ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, che aveva come obiettivo proprio quello di far emergere i rapporti di lavoro irregolari di tanti braccianti stranieri e dar loro un permesso di soggiorno. «Da oggi gli invisibili saranno meno invisibili. Da oggi vince lo Stato perché è più forte della criminalità e del caporalato», disse allora Bellanova, tra le lacrime, presentando quella che di fatto era una sanatoria.

Risultato: le lacrime di Bellanova come le ruspe di Salvini sono passate senza quasi lasciar traccia sulle baracche della Piana. La ragione è semplice e per capirla basta scorrere le ultime statistiche compilate da un’altra ONG, il Medu (Medici per i diritti umani). Nella Piana di Gioia Tauro i braccianti nella stragrande maggioranza dei casi hanno il permesso di soggiorno (88%) e pure un contratto (55%), anche perché quasi due su tre (63%) vivono in Italia da 4-9 anni e non pochi (12%) addirittura da più di 10 anni. Ma nove volte su dieci (87%) è la loro busta paga che non è per niente regolare.

Le nuove baracche all’interno della tendopoli istituzionale di San Ferdinando

«Sono quasi tutti lavoratori in nero o grigio, per cui a fronte di 6 o 7 giornate di lavoro a settimana gliene vengono registrate 3 o 4 al mese», mi spiega Ilaria Zambelli, che coordina l’intervento di Medici per i Diritti Umani in Calabria. Così il datore di lavoro risparmia in tasse e contributi. Ma il lavoratore ha diritto a zero malattie, infortuni, ferie. Per di più, soltanto un bracciante su tre (35%) è iscritto al sistema sanitario nazionale e ha un suo medico di base. La ragione: l’impossibilità di ottenere la residenza in insediamenti informali, come il villaggio di Taurianova.

Ecco perché nella Piana c’è anche un ambulatorio di Emergency, manco fosse una zona di guerra. Ecco perché il Medu offre assistenza sanitaria, ma anche legale. Ed ecco appunto perché, mi spiega Ilaria, la regolarizzazione targata Bellanova non ha funzionato: «Per altro per tutti i paletti che sono stati messi, alcuni datori di lavoro che si sono rivolti a noi non hanno neppure potuto accedere alla sanatoria. Per chi poi ha avuto accesso, si stanno verificando tantissimi ritardi per le regolarizzazioni, ma sia qua che in tutta Italia…». Non ha cambiato le cose, quindi? «No», mi risponde seccamente Ilaria. Che aggiunge che il punto, qui in Calabria semmai è soprattutto un altro «Ci sono piccole aziende agricole che vengono schiacciate dalla grande distribuzione. E chiaramente un produttore si rifa con l’ultimo anello della catena, i braccianti».

Per colpa di chi?

Ilaria ha ragione: per capire perché finiscano quattro spicci nelle mani di chi raccoglie le arance bisogna ripercorrere tutta la catena di produzione che ce le fa arrivare in tavola. I salari dei braccianti, infatti, sono così bassi anche perché la grande distribuzione, cioè i supermercati, e l’industria pagano le arance a prezzi bassissimi. «Nella Piana l’80% della produzione è biondo, cioè arance da succo. Il prezzo è di 0,10 centesimi al chilo. Non ci si paga nemmeno il costo della raccolta», mi dice il direttore generale di Confagricoltura Calabria, Angelo Politi.

Per chiarirmi meglio la situazione, a Politi basta aggiungere solo un altro numero: «Se dovessero essere attuate tutte le operazioni culturali – concimazione, irrigazione, potatura – anche considerando gli aiuti comunitari – l’azienda ci rimetterebbe comunque 150 euro a ettaro. Ecco perché molte operazioni culturali non si fanno proprio più e il prodotto è di scarsa qualità. Ed ecco che per far quadrare i conti molte di queste aziende utilizzano lavoro nero o comunque sottopagato».

Ma come si è arrivati a questi prezzi stracciati? «Per esempio importando succo dal Brasile. Ci sono paesi che non hanno garanzie sulle norme di sicurezza, sui contratti: importiamo da loro prodotti a bassissimo costo e noi produttori siamo perdenti in partenza. Importiamo anche illegalità? Certo, lo denunciamo da tempo. Altro elemento di criticità è la grande distribuzione che fa aste a doppio ribasso e il ribasso alla fine incide sulla dignità del lavoratore», mi risponde Politi.

Ci sono agricoltori che pagano in nero o grigio e altri che rispettano le regole dalla A alla Z, come quelli della cooperativa Sos Rosarno (nella foto il magazzino). Tutti i produttori sono piccoli proprietari che assumono regolarmente la manodopera impiegata nella raccolta, per oltre il 50% immigrata. Una quota del prezzo di tutti i prodotti va a finanziare l’attività di realtà che promuovono i diritti dei lavoratori delle campagne. Sos Rosarno vende anche a gruppi d’acquisto (Gas) e ONG come Mediterranean Hope che da sola, quest’anno, ha comprato 600 quintali di agrumi.

Gli agricoltori però, mi assicura il presidente di Confagricoltura, stanno lavorando sodo per cercare di risolvere il problema: «Nella piana sono già stati espiantati centinaia di ettari di agrumi e sta prendendo corpo un distretto del kiwi, che assieme alla cipolla rossa di Tropea e bergamotto sono i comparti a più alto reddito».

Volontà e interessi

La soluzione, quindi, potrebbe essere la riconversione al kiwi o ad altri prodotti che valgono di più sul mercato? Ibrahim ha i suoi dubbi: «Sono le stesse persone che raccolgono arance e clementine a raccogliere il kiwi. E vengono pagate sempre allo stesso modo. E’ che c’è molta offerta di lavoro. Gli dicono: o così o lo fa un altro». E anche, per Peppe, la questione non è così semplice: «Sono convinto che il prezzo della frutta pagato al produttore andrebbe messo in etichetta. Ma qui si fa anche la raccolta dei mirtilli, che pure è redditizia. Un lavoro bestiale, molto più faticoso delle arance, eppure lo pagano sempre 35 euro al giorno».

E allora? E allora, secondo Peppe, il punto è che questa emergenza dura da 20 anni, cioè da quando i primi braccianti neri sono arrivati, a fine anni Novanta, nella Piana. E «se non si risolve, è perché non la si vuole risolvere. Nessuno vuole essere il sindaco che porta i neri nei centri comunali, quindi nessuno si impegnerà per sostenere una campagna per affittare le case ai neri. Neanche il sindaco più progressista, soprattutto in questo periodo storico. Avere una massa di persone conviene anche alle aziende, perché è più facile recuperare manodopera, facilmente ricattabile. E poi…». E poi? «Ogni tanto – conclude Marra – leggiamo sul giornale che sono stati arrestati tre africani che coltivavano marijuana nella piana di Goia Tauro. Ma può essere mai credibile che in questi territori tre africani si mettono a piantare marijuana? La ‘Ndrangheta ha esternalizzato il rischio di impresa…».

E il problema, invece di risolversi, rischia di complicarsi ancora di più.

In copertina: notte alla tendopoli di San Ferdinando.

TAG: Black Lives Matter, braccianti, Rosarno
CAT: Agricoltura, Precari

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