USA 2016, il ritorno della Southern Strategy

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23 Dicembre 2015

Che l’ala radicale del Partito Repubblicano abbia trovato in Donald Trump e Ted Cruz i propri punti di riferimento è ormai chiaro. In particolare, se si considera l’emorragia di consensi che sembra stia subendo in queste settimane l’ex neurochirurgo Ben Carson: sempre più in crisi soprattutto per la sua scarsa credibilità in materia di politica estera. In tal senso, il miliardario newyorkese e il senatore texano stanno avviando uno scontro per assumere il controllo delle frange ultraconservatrici. Uno scontro che ben si manifesta in Iowa: Stato notoriamente tendente al voto radicale e che vede negli ultimi giorni una sorta di testa a testa tra i due.

Ma, per chi mira ad intestarsi il vessillo di rappresentante del voto conservatore, è ben nota la necessità di volgere la propria attenzione verso gli stati meridionali. Anche perché l’Iowa sarà pure importante in termini di visibilità (ospitando tradizionalmente il caucus con cui hanno inizio le primarie): ma in termini di voti (e nella fattispecie di delegati) non è che garantisca poi chissà quale appoggio. Per questo storicamente i candidati conservatori (soprattutto repubblicani) guardano con interesse agli Stati del Sud, secondo i crismi di quella che viene generalmente definita la Southern Strategy.

Fino agli anni ’50 del ‘900, gli stati meridionali si configuravano elettoralmente come riserva di caccia esclusiva per i democratici. D’altronde, l’antitesi tra un Nord tendenzialmente industriale, moderno e repubblicano e un Sud agricolo, segregazionista e democratico affondava le proprie radici nella Guerra di Secessione e – più in generale – nel conflitto ideologico tra schiavismo e abolizionismo. Eisenhower fu il primo repubblicano dopo decenni a considerare opportuno cercare di estendere l’influenza del GOP  a meridione, per quanto non sia poi riuscito nell’intento. Le cose cambiarono invece in occasione delle elezioni del 1964: il candidato repubblicano, Barry Goldwater, decise di gettare alle ortiche anni di abolizionismo GOP, per attaccare frontalmente il Civil Rights Act di Johnson e cercare di conquistarsi così le simpatie del voto meridionale: tendenzialmente democratico e segregazionista. E per quanto Goldwater fosse infine riuscito a sfondare in alcuni stati del Sud (a partire dalla sua Arizona), con lui l’Elefantino incontrò la peggiore debacle elettorale della sua storia.

Più furbo si rivelò Richard Nixon nel 1968. Se da una parte aveva ben chiara la necessità di accattivarsi il Sud per conquistare la Casa Bianca, dall’altra era altrettanto consapevole che sposare una politica apertamente segregazionista si sarebbe rivelato fallimentare: innanzitutto avrebbe finito con l’ alienarsi il voto repubblicano del Nord (come accaduto a Goldwater). In secondo luogo, quell’anno si era candidato George Wallace da indipendente, con un programma duramente segregazionista, che rendeva dunque indisponibile il bacino elettorale più radicale. In tal senso, la Southern Strategy nixoniana fu volta a enfatizzare l’autonomia dei singoli stati rispetto alle interferenze federali: aggiungendo a questo una visione di “law and order“, nettamente avversa all’allora emergente New Left (particolarmente invisa ai democratici meridionali classici).

Fu così grazie a Nixon che il Sud finì con l’aprirsi al Partito Repubblicano. Partito, che ha mantenuto sostanzialmente invariata questa strategia nel corso degli anni successivi, arrivando – sotto certi aspetti – a un ribaltamento della sua politica tradizionale. Se difatti storicamente erano i repubblicani ad essere fautori del potere federale, di contro alle autonomie dei singoli Stati, sono oggi proprio loro che avversano quello che definiscono lo strapotere di Washington (in tal senso, vanno ad esempio lette le dure battaglie condotte in questi anni contro l’Obamacare, tacciata da più parti di essere un riforma liberticida).

Ed ecco che anche in occasione dell’attuale corsa elettorale, i candidati vicini alla destra stanno attuando una vigorosa Southern Strategy. Sia Trump che Cruz stanno battendo palmo a palmo da giorni diversi stati meridionali, tenendo comizi e incontri pubblici. Il piano è sempre lo stesso: presentarsi come paladini delle libertà locali contro l’invasività del big government. I due sono in dura competizione: con Trump che attacca direttamente Cruz. E Cruz che – per il momento – si limita a qualche frecciatina senza esagerare, cercando di non alienarsi i sostenitori del miliardario. Tanto più che adesso un fuori onda proditoriamente registrato rischia di metterlo nei guai: avendo Ted confidato a un sostenitore di non essere tra le sue priorità la lotta al gay marriage (ritenuto da molti un esempio di ingerenza federale).

Il dato rilevante è che ad oggi pare siano soltanto loro due ad aver iniziato una massiccia campagna nel profondo Sud. Se si fa eccezione per Marco Rubio (che, pur timidamente, si è guadagnato qualche endorsement nel Tennessee), non sembra che gli altri candidati alla nomination repubblicana (soprattutto quelli di area moderata) abbiano ancora seriamente investito nel tentativo di espandere la propria influenza nel Meridione. Fatto questo, che potrebbe favorire immensamente il fronte ultraconservatore, facilitando una sua eventuale scalata al partito.

TAG: Donald Trump, Marco Rubio, Richard Nixon, Ted Cruz
CAT: America

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