USA 2016, la strage di Parigi nelle presidenziali americane
Lo spettro dell’11 settembre si aggira nuovamente per l’America. E –non a caso – gli attentati di Parigi hanno avviato una significativa rivoluzione in seno al dibattito della corsa elettorale per le presidenziali del 2016. Una rivoluzione che promette di incidere corposamente nelle votazioni che si apriranno nel mese di gennaio e che sta oggi già ridefinendo gli equilibri di influenza e popolarità interni ai rispettivi partiti in lizza.
Innanzitutto i democratici. Per mesi il dibattito politico nell’ambito dell’Asinello ha sostanzialmente ignorato le problematiche di politica estera. Complice l’exploit del candidato socialista Bernie Sanders e della non proprio grandiosa esperienza da segretario di Stato di Hillary Clinton, i democratici hanno preferito concentrarsi sulle questioni socio-economiche, lasciando quelle di foreign policy ai margini dei propri interessi. L’unico che nelle settimane passate aveva tentato di spostare l’attenzione sugli affari internazionali è stato l’ex segretario alla Marina ed ex senatore della Virginia, Jim Webb: e difatti nessuno se l’è mai filato ed è stato il primo ad annunciare il proprio ritiro dalla competizione.
Ma adesso le cose sembrano cambiate. E soprattutto Hillary Clinton – forse anche per far dimenticare le sue opache responsabilità sul caso Bengasi – ha imbracciato il mitra, tornando alla bellicosità di un tempo. Ha difatti affermato la necessità di distruggere lo Stato Islamico e ha definito fallimentare ogni strategia di containment, arrivando ad esprimere chiaramente venature critiche verso la politica estera di Barack Obama.
Ma è sul fronte repubblicano che paiono avvenire i maggiori cambiamenti. E non tanto in termini di contenuti, visto che comunque la politica estera è costantemente risultata tra i temi centrali del dibattito in seno al GOP. Il mutamento sembra essersi concretizzato in merito al gradimento elettorale. Nell’ambito di una campagna difatti che ha visto dominare per mesi i candidati maggiormente legati all’antipolitica, la paura nata a seguito degli eventi parigini starebbe producendo cambiamenti notevoli. L’elettorato repubblicano, insomma, starebbe cominciando a valutare l’esperienza dei candidati come un elemento positivo e non più come odiosa espressione del professionismo politico.
E difatti, secondo le ultime rilevazioni, si assisterebbe a una flessione di candidati fino a ieri sulla cresta dell’onda. E il caso più eclatante sarebbe proprio quello dell’ex neurochirurgo, Ben Carson. Divenuto front runner dello schieramento repubblicano nelle scorse settimane proprio in virtù della sua inesperienza politica, starebbe iniziando a perdere terreno per l’ambiguità e l’inconsistenza con cui avrebbe commentato i fatti di Parigi: mostrando, cioè, tutta la propria inadeguatezza nell’affrontare le questioni di foreign policy.
Un destino che potrebbe ben presto toccare allo stesso Donald Trump: il quale, tra le numerose assurdità programmatiche che da tempo proferisce, ha sempre mostrato nella politica estera il suo maggiore tallone d’Achille (ignorando tra le altre cose la differenza tra Hamas ed Hezbollah). Anche per questo, sembrerebbe che da una simile situazione possano via via trarne beneficio candidati maggiormente esperti come Marco Rubio e (soprattutto) Jeb Bush. E lo stesso senatore texano, Ted Cruz, starebbe riuscendo man mano ad ereditare i patrimoni elettorali di altri rivali ultraconservatori e anti-sistema (come il silurato Bobby Jindal e lo stesso Carson).
Tuttavia, se da una parte Parigi sembra stia riequilibrando i rapporti di forza nel GOP verso candidati più strutturati nei temi di politica estera, dall’altra sta anche determinando un ulteriore spostamento a destra sulla questione dell’immigrazione: soprattutto per quanto concerne il problema dei rifugiati siriani, nei cui flussi migratori si teme sempre più possano annidarsi dei terroristi. In tal senso, anche candidati storicamente più aperti in tema di immigrazione – come Rubio, Christie e Bush – stanno oggi spostandosi su posizioni più dure e non lontane dagli accenti radicali dei vari Trump e Cruz.
Come che sia, se la conquista della nomination democratica da parte di Hillary appare come un fatto ormai scontato, bisognerà capire come andranno le cose sul fronte avverso. E la nuova emergenza terroristica potrebbe avere il suo peso. Soprattutto per Cruz, Rubio e Bush.
Per quanto stia riuscendo lentamente ad emergere, è difficile che Ted Cruz possa realmente farcela. E’ pur vero che – come abbiamo visto – si stia rivelando capace di catalizzare i voti della destra e che i timori sull’immigrazione possano avvantaggiarlo. Ma è anche indubbio il suo eccessivo radicalismo che gli aliena la simpatia dei moderati, senza poi contare l’assenza di significativa esperienza internazionale: elemento, questo, che potrebbe risultargli fatale verso un elettorato radicale, sì, ma anche preoccupato per un’instabilità geopolitica che potrebbe causargli non pochi guai tra le mura domestiche.
Situazione diversa per Rubio e Bush. Entrambi potrebbero risentire positivamente di questa situazione, potendo vantare tutti e due competenze amministrative e in campo internazionale, nonché una fama di falchi in politica estera. Ed è alla fine probabile che sia proprio uno di loro ad emergere, riuscendo a conquistare la nomination repubblicana. Certo: Bush deve scontare l’appartenenza ad una dinastia da molti considerata artefice dell’attuale marasma mediorientale. Mentre Rubio la giovane età e l’assenza di esperienza governativa. Ma sono gli unici al momento in grado di creare un argine all’inconsistenza populistica degli antipolitici: figure che al momento del pericolo si sgretolano nella loro vacuità.
Come nel 1980 e nel 2004, la campagna per le presidenziali del 2016 si avvia nuovamente ad essere dominata dalla politica estera. Ma diversamente dal 1980 e il 2004, l’America oggi è in piena sindrome del Vietnam: è cauta, timorosa, nevrotica, in piena crisis of confidence. Un’America di candidati presidenziali che fanno la voce grossa ma che poi concretamente non sembrano avere le idee particolarmente chiare su come distruggere quello Stato Islamico che dicono di voler abbattere. Candidati (da Hillary a Bush) che da una parte criticano Obama per la leadership from behind praticata in questi anni. Ma che dall’altra (ad oggi almeno) si arrovellano su possibilità di intervento militare indiretto, per cui nessuno ancora ha veramente capito quale dovrebbe in concreto essere il ruolo degli Stati Uniti in questa nuova guerra al terrore. Paura? Incapacità? Strategia elettorale? Mala tempora currunt.
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