L’arte della leadership

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14 Novembre 2015

Ci hanno detto che l’Asse del Male fosse una subdola trovata ideologica, per soggiogare le menti del popolo ottuso. Ci hanno detto che la guerra in Iraq non fosse altro che una squallida operazione, concepita dall’istinto belluino, in ossequio a un capitalismo lordo di sangue e di petrolio. Ci hanno perfino detto che l’11 settembre potrebbe essere il frutto di un complotto, biecamente ordito per far risorgere un anacronistico spirito crociato: insensibile all’irenismo culturale e rozzamente estraneo agli educati crismi del politically correct.

Ci hanno detto che George Walker Bush sarebbe stato il peggior presidente degli Stati Uniti, probabilmente dai tempi del pessimo Herbert Hoover (horribile dictu!). Che fosse un allocco texano, digiuno di politica e meschinamente interessato alla tutela dei propri affari economici. Che Dick Cheney fosse un sadico torturatore. Che Condoleezza Rice fosse una “scimmia” (come la definì carinamente Lidia Ravera sull’Unità nel 2004): asessuata, senz’anima ed esclusivamente mossa dalla sete luciferina di una putrida libido dominandi. Ci hanno infine detto che tra il 2000 e il 2008 l’America avrebbe toccato il fondo della propria Storia, perdendosi dietro ad isterismi bellicistici, farciti da teorie barbariche sullo scontro di civiltà ed altre stupidaggini reazionarie.

Tutto questo ci hanno detto. Ed oggi – dopo otto anni di un’amministrazione democratica, nata sotto il segno di una rivoluzione morale, della discontinuità con il recente passato e per giunta insignita di un Nobel per la Pace –  qual è la situazione? Un sedicente Stato Islamico a trazione terroristica che prospera incuneato nel Medio Oriente; attentati su vasta scala nel cuore dell’Europa; e ambigue aperture statunitensi verso una nazione sciita, il cui massimo complimento fatto all’America negli ultimi trent’anni è stato quello di essere “il Grande Satana”. Un vero successone!

Certo: scaricare ogni responsabilità sulle (fragili) spalle di Barack Obama sarebbe iniquo. Né si vuole arrivare alla santificazione del suo predecessore. Perché attenzione: qui nessuno è ingenuo. Qui nessuno nega che gli Stati Uniti abbiano problemi di rifornimento energetico e che abbiano sovente utilizzato le armi per risolverli. Qui nessuno nega che la famiglia Bush abbia storicamente danarosi interessi nel ramo petrolifero. Né, più in profondità, che gli ispiratori filosofici della dottrina neoconservatrice abbiano costantemente teorizzato la necessità della menzogna ideologica nell’esercizio del potere.

Il problema però è ben più radicale. E interroga alla fine le premesse di fondo che hanno mosso le ultime due presidenze degli Stati Uniti. Quella nazione che – piaccia o meno – dispone ad oggi della prima forza militare al mondo e che, proprio per questo, è riuscita ad imporre la propria leadership a livello politico ed economico: una forza militare da cui le discende la massima responsabilità nella salvaguardia dell’equilibrio internazionale. E’ il principio degli Imperi, d’altronde.

Storicamente, quando una conformazione geopolitica riesce ad acquisire più potere, si impone sulle altre, divenendo così naturalmente il loro centro gravitazionale. Laddove, l’idea della multipolarità è solitamente accarezzata dalle conformazioni più deboli che vogliono illudersi di mantenere un’autonomia che di fatto non possiedono.

Ora, è in questo quadro che viene a inserirsi la differente strategia proposta tra Bush e Obama. Come notava Karl Rove in un articolo firmato su Foreign Policy nel 2012, la politica estera dell’attuale presidente statunitense risulterebbe essenzialmente volta ad un progressivo disimpegno sul fronte internazionale, finalizzato a rendere sempre più l’America una “nazione tra le altre”. Una visione nettamente avversa all’eccezionalismo neocon dell’amministrazione Bush, che ha tratto alimento primario dalla sindrome del Vietnam, riesplosa a seguito dell’invasione irachena.

Il punto è allora capire se l’America possa effettivamente permettersi questa strategia di leadership from behind. Se rappresenti veramente un atto di giustizia, dopo decenni di interventismo iperattivo, o se – al contrario – nasconda implicazioni nocive. Ed è proprio questo il rischio. Se si vuole concretamente guardare oltre le belle parole sulla moralità pacifista, è assolutamente evidente che la progressiva abdicazione dell’America dal suo ruolo di leader mondiale non farà che peggiorare le cose sul piano internazionale. E questo non perché l’America sia la nazione salvifica, non perché incarni la moralità storica né perché sia investita da chissà quale missione ultraterrena. Ma semplicemente perché una comunità internazionale di eguali non è possibile: perché quando una superpotenza abdica o si crea il caos o qualcun’altro ne prende il posto.

In tal senso, nell’epoca del radicalismo islamico, siamo veramente sicuri che preferiremmo una situazione di totale disordine geopolitico o – in alternativa – una leadership mondiale di stampo cinese?  Siamo veramente certi che – soprattutto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica – possa essere la via diplomatica l’esclusivo strumento di risoluzione delle ostilità? Siamo veramente sicuri che con la crisi dello stato moderno sia ancora possibile inquadrare i conflitti all’interno degli schemi di legalità internazionale, prodotti dall’ONU? Schemi che non solo non hanno mai mostrato di funzionare granché ma che comunque potevano avere un senso in seno a un ordine internazionale che trovava appunto nel concetto di “stato” il proprio asse portante. Un concetto che oggi sta dissolvendosi, sotto gli attacchi di un fondamentalismo islamico sfuggente e reticolare.

Una crisi che sta producendo lo sgretolamento del vecchio ordine geopolitico. Uno sgretolamento in cui – proprio per questo – la legalità risulta essere sempre più consunta dalla sua vuota impotenza. Tornano così le tesi espresse da Robert Kagan nel 2003, quando sostenne come la conclusione della Guerra Fredda aveva finito col riprodurre una situazione caotica di stampo hobbesiano, nel cui ambito l’America avrebbe dovuto difendere con la forza gli interessi del mondo occidentale, in nome di un deciso unilateralismo.

Proprio perché in una situazione di incertezza e pericolo estremo non è possibile fare affidamento a regolamenti e protocolli astratti. Perché si può avviare una trattativa con chi ha un punto in comune con te, non con chi ti considera aprioristicamente un maiale da sgozzare. Perché alla fine è più facile accordarsi con Leonid Breznev che con Al Baghdadi. Perché se non vogliamo tirare reaganianamente in ballo nell’ambito politico la categoria etica di “male”, quantomeno dovremmo rispolverare quella politologica di “nemico”.

Ed è stata allora proprio questa la “colpa” di George Walker Bush. Un presidente che – per carità – ha commesso errori immani: soprattutto nella gestione irachena del post Saddam. Ma che qualcosa l’aveva però capita: che uno stato non può permettersi la pace a qualsiasi prezzo. Che un ordine internazionale in crisi non può restare in piedi in virtù di sé stesso. Che la guerra – ahinoi – è parte della natura umana e che talvolta le mani bisogna pur sporcarsele, avendo il coraggio di chiamare le cose col loro nome.

Perché un jihadista non è un “criminale”. Criminale è colui che viola un ordine costituito, in cui egli stesso – nel bene o nel male – si riconosce. Ma il jihadista non ammette l’ordine occidentale: lo disprezza e – anzi – lotta per abbatterlo e sostituirlo. Il jihadista è un nemico. Quando Obama sostiene che gli attentati di Parigi sono un atto contro l’umanità, non capisce o finge di non capire allora che quegli atti sono stati compiuti contro una cultura ben precisa: contro una determinata metafisica, una determinata antropologia, una determinata idea della vita. Che i valori dell’Occidente (posto che esistano ancora) non possono sussistere, senza un’adeguata difesa. Che l’astrazione del politicamente corretto non salverà il mondo. Che la Storia è un drammatico crogiuolo di opposizioni dialettiche, in cui tutto ciò che ha una consistenza si costituisce negando il suo contrario: che non esiste amicizia senza avversione. Amore, senza odio. Pace, senza guerra.

Il potere implica responsabilità. E se siedi nella famigerata stanza dei bottoni, ebbene, quei bottoni devi avere gli attributi per premerli. Anche i più scomodi. Perché l’ignavia è un lusso che non ci si può permettere.

TAG: barack obama, george walker bush
CAT: America, Geopolitica

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