Sempre più meschina la guerra all’aborto negli Usa
Vietare l’aborto, punire le donne che abortiscono. Questa era l’opinione di Donald Trump a marzo, durante un’intervista televisiva. Una dichiarazione così controversa da riuscire nella mission impossible di unire nella comune indignazione gli attivisti favorevoli all’aborto (i cd pro-choice) e quelli contrari (i cd pro-life). Mentre per i primi era da condannare l’intero Trump-pensiero, per i secondi la linea rossa oltrepassata dal candidato repubblicano era stata l’idea di punire legalmente le donne.
Di fronte alle polemiche Trump (che, va ricordato, è ufficialmente il candidato repubblicano alla presidenza) ha ritrattato, dichiarando che bisognerebbe punire i medici, e solo loro, non le donne. Dopo qualche giorno gli animi si sono calmati, e i due fronti sono rientrati nei ranghi. Perché (Trump a parte) l’aborto è assai lontano dall’essere un diritto solidamente riconosciuto dalla società americana, nonostante la giurisprudenza della Corte suprema. Che nel 1973, con la sentenza Roe vs. Wade, l’ha riconosciuto come un diritto costituzionale delle cittadine.
In realtà è proprio da quel periodo che negli USA infuria una “guerra all’aborto”, che negli anni ‘90 ha pure visto alcune teste calde del movimento pro-life incendiare cliniche dove si praticavano aborti, e uccidere dei medici. Un vero e proprio terrorismo cristianista che certa stampa conservatrice, sempre attenta a stigmatizzare (a torto o ragione) le società musulmane, ama dimenticare.
E sebbene si continuino a commettere atti violenti ai danni delle cliniche e delle persone che ci lavorano, la battaglia più importante in realtà si combatte sul piano legale. Non tanto a Washington, come hanno spiegato varie esperte agli Stati Generali, quanto in ognuno dei 50 stati americani.
«Dal 2010, a livello statale, sono state adottate quasi 300 restrizioni all’interruzione volontaria della gravidanza. – racconta Kelly Baden del Center for reproductive rights, una delle maggiori organizzazioni americane pro-choice (favorevoli all’aborto) – È il numero più alto dal 1973». Se allora gli attivisti pro-life erano rumorosi ma ben poco organizzati, oggi sono diventati una lobby molto potente, capace di influenzare pesantemente i decisori politici, soprattutto repubblicani. E poco importa se, secondo lo statunitense Guttmacher Institute, nel 2011 gli aborti volontari hanno toccato il minimo storico, scendendo a 16,9 ogni mille americane tra i 15 e i 44 anni (contro i 7,6 ogni 1000 italiane nel 2012). Per i pro-life non è ancora abbastanza.
Varie esperte hanno spiegato agli Stati Generali che il movimento pro-life sta spingendo le legislature statali ad adottare un crescente numero di restrizioni e provvedimenti anti-aborto. «In sostanza – spiega Carole Joffe, docente al Bixby Center for Global Reproductive Health dell’Università della California, San Francisco – nessuno stato può vietare l’aborto, in quanto diritto garantito a livello costituzionale». Alcuni stati però si adoperano per renderlo sempre meno accessibile. «Ad esempio – continua Joffe – pretendono costosi miglioramenti strutturali delle cliniche».
In questo modo «hanno costretto diverse cliniche a chiudere, soprattutto negli stati del sud – spiega Baden –. A volte le donne devono andare ad abortire in un altro stato. Basti pensare a Mississipi, Missouri, North Dakota, South Dakota e Wyoming. In ognuno è rimasto un unico centro medico che offre questa prestazione». In Texas, uno degli stati più antiabortisti, sono rimaste solo otto cliniche per oltre 26 milioni di persone. E persino nel più liberale stato di New York i centri medici dov’è possibile interrompere una gravidanza sono 23 per circa 20 milioni di persone.
Quello delle restrizioni-trappola per le cliniche non è il solo strumento del movimento pro-life. Com’è noto, il sistema sanitario americano è diverso da quello italiano, e chi può ha un’assicurazione sanitaria privata. Ma i pro-life cercano di eliminare la copertura dell’aborto anche dalle assicurazioni sanitarie, salvo nei drammatici casi previsti dall’emendamento Hyde (gravidanze frutto di stupro o incesto, o che mettono in pericolo la vita della donna).
L’anno scorso il senato texano ha approvato una legge per vietare la copertura dell’aborto persino alle assicurazioni accessibili grazie al cosiddetto Obamacare, l’ACA (Affordable Care Act). Voluto per ampliare l’accesso a Medicaid (il programma di assistenza sanitaria pubblica per persone a basso reddito), l’ACA prevede che ogni stato possa scegliere se permettere la copertura assicurativa dell’aborto o meno. E molti hanno deciso di non farlo.
«Attualmente – dice Joffe – solo 15 stati coprono l’aborto per le donne a basso reddito». Negli altri stati invece è consentito solo nei casi previsti dall’emendamento Hyde. In sostanza chi vuole un aborto deve pagarlo. In media 500 dollari. Un bel problema se si pensa che, secondo il Guttmacher Institute, il reddito annuale di circa la metà (il 42%) delle donne che ricorrono all’interruzione della gravidanza non raggiunge gli 11mila dollari: cioè meno di 1000 dollari al mese.
Baden esclude che le azioni promosse dal movimento pro-life mirino a ridurre il più possibile il tasso degli aborti a favore di altri metodi di controllo delle nascite. «Se così fosse credo che i militanti pro-life si sforzerebbero di semplificare e ampliare l’accesso ai contraccettivi. Ma non è così. Anzi, gli antiabortisti in genere sono contrari pure a quelli». Fino ad ora, infatti, anche l’accesso agli anticoncezionali più affidabili, come la pillola o la spirale, è stato costoso e complicato. Soprattutto per le donne a basso reddito assicurate con Medicaid (una su 10 secondo il Center for reproductive rights).
«A seconda dello stato di residenza – spiega Baden – può essere difficile trovare vicino casa un ambulatorio che accetti i pazienti Medicaid. A volte bisogna andare molto lontano e fare lunghe file per farsi visitare». Difficoltà logistiche a parte, prima dell’ACA l’inserimento della spirale poteva costare oltre 200 dollari. «Il nostro sistema sanitario dipende dal potere d’acquisto di ciascuno. – sottolinea Baden – Però l’Obamacare ha permesso a molte donne di avere accesso alla copertura assicurativa per i contraccettivi». In effetti, secondo un rapporto dell’Università della Pennsylvania pubblicato lo scorso luglio, nei primi sei mesi del 2013 il costo dell’inserimento della spirale era calato del 68%, da 262 a 84 dollari, rispetto all’anno prima.
Da parte sua Khiara Bridges, docente di legge alla Boston University, ricorda comunque che «nessun piano assicurativo acquistabile grazie all’Obamacare può coprire l’aborto. Il che è pazzesco. Si vuole ampliare l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica, purché non si tratti di abortire». Su questo Joffe la pensa diversamente. «Secondo alcuni attivisti pro-choice Obama non ha fatto abbastanza. Io penso che abbia aiutato in ciò che contava, ad esempio la contraccezione. La vera guerra all’aborto si fa a livello statale, dove lui non ha alcun controllo». Neanche per quanto riguarda la contraccezione. «Alcuni stati ed enti hanno reagito all’ACA dicendo che non dovrebbero essere obbligati a fornire la copertura assicurativa per i contraccettivi. – spiega Baden – Con buona pace dei dati che dimostrano che un maggiore accesso alla contraccezione ha un evidente impatto sulla riduzione del tasso di aborti».
Per la stesura dell’articolo l’autrice ha cercato di contattare varie organizzazioni pro-life sia per mail che per telefono, ma non ha mai ricevuto risposta.
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