#iorestoacasa. Quale casa? (Riflessioni sullo spazio pubblico)

22 Marzo 2020

testo scritto con Chiara Quinzii.

 

Nelle case non c’è niente di buono

Appena una porta si chiude dietro a un uomo

Succede qualcosa di strano, non c’è niente da fare

è fatale, quell’uomo comincia ad ammuffire.

Basta una chiave che chiuda la porta d’ingresso

Che non sei già più come prima

E ti senti depresso.

[…]

C’è solo la strada su cui puoi contare

La strada è l’unica salvezza

C’è solo la voglia e il bisogno di uscire

Di esporsi nella strada e nella piazza

Perché il giudizio universale

Non passa per le case

Le case dove noi ci nascondiamo

Bisogna ritornare nella strada

Nella strada per conoscere chi siamo.

[…]

E anche nelle case più spaziose

Non c’è spazio per verifiche e confronti.

Giorgio Gaber, C’è solo la strada, in Anche per oggi non si vola, 1974

 

Siamo tutti uguali solo nello spazio pubblico, lo spazio di tutti

Nessun ostacolo potrà fermarci; e, abbandonandoci gaiamente alla nostra immaginazione, la seguiremo ovunque le piacerà di condurci.

Xavier De Maistre, Viaggio intorno alla mia camera, 1790-94.

Spesso si dice che ci si rende conto dell’importanza di qualche cosa solo quando quella cosa manca.

Ci manca, ora, in questa emergenza, lo spazio pubblico.

Decreti, ordinanze, lamentele, preghiere, delazioni, suppliche: tutto pare convergere verso il luogo che ci fa riconoscere come società, lo spazio di tutti. Ma, forse perchè convenientemente considerato come spazio di nessuno, è potuto diventare il capro espiatorio di una emergenza che ci trova impreparati, impauriti, ansiosi e per questo necessita di un nemico, di qualcosa il cui sacrificio possa offrirsi come soluzione semplice ed immediata ad una complessità a cui nessuno, per ora, sa dare forma e ragionamento.

Restate in casa, ci dicono, gli stessi che ci dicevano fate movimento, per una vita sana.

Fate movimento, se proprio necessario, ma fatelo in prossimità della casa, sottolineano, senza indicare cosa significhi prossimità (Abitare è essere ovunque a casa propria diceva Ugo La Pietra).

Ugo La Pietra, Abitare è essere ovunque a casa propria, Giulianova (PE), 1968 (immagine tratta da arte.it)

Gli alberi porteranno benefici alle nostra vite, miglioreranno l’aria, più verde, più prati, meno cemento, ci dicevano. Ora i parchi sono stati chiusi.

Uscite, se necessario, ma state fuori il meno possibile, ci dicono.

Ce lo dicono ora, proprio ora che lo spazio pubblico si offre nella sua forma migliore, senza veicoli a motore, senza inquinamento, silenzioso, innervato dal movimento delle persone, che cercano di assaporarne la presenza anche solo per pochi minuti, magari in coda al supermercato, godendo della luce solare, aggrappati ad un guinzaglio, che prima forse era una scocciatura ed ora è la salvezza.

Come i fumatori prima di un viaggio aereo intercontinentale: un ultimo sbuffo di fumo, assaporato, rimasto nel corpo come un aroma da tenere prezioso per otto, dieci, dodici ore, fino alla prossima boccata.

Restate a casa, ci dicono.

Ma quale casa?

Noi, due adulti ed un bambino, viviamo in 70 mq con due piccoli balconi al secondo piano di una via medio trafficata di Milano, doppia esposizione, a sud su cortile interno. Per circa quattro ore al giorno la luce del sole entra diretta in casa. Siamo fortunati, abbastanza.

I nostri vicini al quarto piano sono in quattro, due adulti e due bambini (e spesso una zia), in un bilocale di 50 mq monoaffaccio sul cortile e un piccolo balcone pieno di oggetti: il ripostiglio, in pratica.

Per il clochard al Parco Lambro, che incontriamo spesso quando andiamo a correre, casa sono le panchine del Parco stesso (e alcune volte le poltrone della biblioteca di via Valvassori Peroni) che, fortunatamente (almeno fino ad oggi), non è recintato, per cui anche lui è potuto restare a casa.

A salire, una famiglia di amici, in cinque – due adulti e tre bambini- vivono in un attico di 100 mq, con terrazza grande come l’interno e vista sul cielo ed i tetti di Milano; a salire ancora alcuni altri twittano #iorestoacasa, ma, evidentemente, intendono #iorestonellamiasecondacasa, o forse, addirittura, #iorestoinunadellemiecase, con ampie aree a verde, in pratica dei parchi personali.

C’è chi prende un aereo privato, non il banale treno con le cuccette che ti porta al sud in un viaggio infinito, e se ne vola lontano in una tenuta attrezzata con terapia intensiva personale, ma forse a quel punto il concetto di casa è superfluo.

Il film che quest’anno ha vinto l’Oscar come migliore lungometraggio (oltre alla Palma d’oro a Cannes) è di un regista originario del paese che, in questo momento, stiamo tutti guardando con interesse per trovare metodi di contrasto efficaci al virus; Parasite parla proprio di un su e di un giù, di dentro e di fuori, di questo spazio che convenzionalmente chiamiamo casa, ma che per ciascuno di noi è un luogo molto diverso.

Il film narra le vicende di una famiglia di quattro persone che vive in uno squallido seminterrato, con una finestra panoramica su un vicolo buio, e di una famiglia, sempre di quattro persone, che vive in una casa progettata da un famoso architetto, con una finestra panoramica, ma sul proprio giardino privato inondato dal sole e chiuso verso l’esterno (dettaglio importante).

Le due case sono lo specchio di due disagi differenti (anche i ricchi nascondono un disagio sottile, ma letale: lo scollamento dalla realtà della vita); questi disagi si mescoleranno esplodendo nel finale della pellicola, alla scoperta di un terzo disagio, una persona che vive ancora più giù, dove la luce naturale non esiste, mostrando con più forza che forse non è la casa il luogo del benessere, fisico e psicologico, anzi spesso è il luogo di nevrosi incontenibili -l’uomo è nato nomade in fondo-.

Proprio in questi giorni sentiamo che il disagio a cui ognuno di noi è sottoposto stia denunciando impietosamente la differenza tra chi in casa non è mai – perchè vive in un mondo iperbolico, sempre in viaggio per lavoro o piacere, sempre a pranzo e cena fuori, per il quale questo periodo di clausura forzata è quasi un sano ritorno alla realtà (che bello cucinare a casa; che bello frequentare i propri figli; che bello riscoprire la lentezza del tempo) – e chi la casa la sente da sempre troppo stretta, claustrofobica, inadeguata e ha bisogno di uscirne perchè gli manca l’aria, perchè in casa la tensione, già normalmente alle stelle, ora diventa insostenibile.

Rimane dunque solo il bene privato, la casa, e questo ci mostra disuguali più che mai, ci mostra che il problema della casa, altro servizio ampiamente sottofinanziato negli ultimi anni, è un tema da riportare sui tavoli delle politiche sociali con forza: la casa è un diritto, ma non solo nei termini di una pura quantità (che pure è necessaria), ma anche e soprattutto di qualità, urbana, architettonica, sociale.

Ma in questi giorni in cui siamo chiamati a stare in casa per il bene di tutti, la salute pubblica, un altro bene collettivo, lo spazio pubblico, si sta riducendo. Musei, scuole, parchi vengono chiusi, le strade sono pattugliate e si deve giustificarne l’occupazione fisica personale con un’autocertificazione.

La mancanza di un luogo ce ne dimostra l’essenzialità: solo nello spazio pubblico possiamo essere tutti uguali e godere tutti della nostra personale quota di bellezza, che ci può salvare, anche solo per i pochi minuti di una passeggiata in solitaria.

Lo spazio pubblico è il regolatore sociale per eccellenza e questa emergenza ci fa capire che d’ora in avanti è sullo spazio pubblico che dovremo concentrare le risorse progettuali in ambito urbano.

Uno spazio pubblico ben progettato, interessante, innovativo proverà a parificare le situazioni personali, permettendo al povero e al ricco uguale trattamento di fronte allo spazio dell’abitare, inteso in senso ampio: la piazza del Duomo è bella per tutti, chiunque può sedersi ad ammirarla.

Dovremo mettere in campo un differente approccio, nel quale considereremo lo spazio tra gli edifici non più, esclusivamente, come il luogo della mobilità veloce, da un punto ad un altro, ma bensì l’oasi che ci accoglie perchè le nostre case personali (grandi e piccole, ricche e povere) non sono abbastanza, perchè il nostro spazio intimo non fornisce adeguatamente le persone della qualità minima per la vita: i movimenti ampi, la natura estesa, l’incontro, il confronto e lo scontro con lo sconosciuto, che possono fornire una soluzione per la nostra vita e salvarci.

Nel frattempo possiamo attuare una pratica di possesso e consapevolezza: i movimenti minimi esterni che ci è permesso fare durante la quarantena dovrebbero essere accompagnati da una esplorazione, anche solo visuale, del nostro intorno, sapendo che quello spazio è di tutti, è nostro, e dobbiamo pretendere qualità nella sua progettazione, come o forse più che per le nostre case.

Se sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.

Henry David Thoreau, Walking, or the Wild, 1862

TAG: casa, COVID-19, iorestoacasa, milano, Spazio pubblico
CAT: Architettura e urbanistica, Qualità della vita

Un commento

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  1. bevandino 4 anni fa

    Complimenti, un’analisi lucida ed equilibrata. Equilibrata tra l’abitare privato e l’abitare pubblico. Aggiungerei che sarebbe fondamentale, affinché lo spazio pubblico venga davvero percepito come tale, che i progettisti imparino ad interessarsi anche dello spazio di soglia, quel semi-privato o semi-pubblico dove le relazioni sociali diventano mature.

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