Iconografia, Lessico Digitale e Razzismo secondo Google
Sempre più spesso Google ci aiuta a costruire il nostro immaginario. Quando abbiamo bisogno di informazioni le domandiamo a Google. Quando cerchiamo una fotografia – e ci vogliamo creare rapidamente un’immagine di quello di cui stiamo parlando, o di cui abbiamo sentito parlare – lo facciamo attraverso lo spazio dedicato di Google. Ed è così anche per le notizie, la strada per tornare a casa, un oggetto da acquistare o un video. Che Google registri tutte le nostre attività è cosa nota, meno nota è quello di cui racconta Fabrizio Bellomo, artista barese classe 1982. Nel 2015, Bellomo ha fatto un esperimento. Ha cercato su Google alcune parole utilizzate per esprimere nazionalità come rumeno, marocchino, nigeriane. Il risultato, alquanto inquietante, l’ha fermato nel tempo con degli screenshot che sono stati esposti – insieme a una serie di video e ad altre opere – in una personale a Milano, nel 2015, presso la Galleria Rossana Ciocca.
«Cercando per esempio la parola rumeno sulla versione italiana di Google immagini – racconta Bellomo –, quello che vedremo saranno una lunga serie di foto-segnaletiche di cittadini rumeni. Le foto in questione sono indicizzate e messe in ordine, e ognuna arriva da un diverso giornale che l’ha utilizzata all’interno di un determinato articolo. Gli articoli da dove arrivano queste foto sono tutti articoli dove la parola rumeno è affiancata a racconti di eventi criminali, perché è proprio in questi casi che si utilizzano le foto segnaletiche sui quotidiani. Ora il punto è: la parola rumeno indica una nazionalità e non l’appartenenza a un gruppo di criminali. Le centinaia di migliaia di persone rumene che abitano in Italia faranno pur qualcos’altro oltre a commettere crimini…».
Sono passati due anni dalla tua mostra. Cosa è cambiato da allora?
Si sono passati due anni dalla mia mostra, ma in realtà ne sono passati cinque da quando ho provato a fare le prime ricerche in questa direzione. Comunque non credo sia cambiato nulla, il mezzo – bene o male – quello era e quello è. Infatti basta riprovare a fare la stessa ricerca per ottenere i medesimi risultati da Google. Fate una prova.
Fatta. Dopo aver cercato su Google Immagini rumeno, tunisino, marocchino ho ritrovato le medesime foto-segnaletiche al centro del tuo lavoro. Come dire: una nazione appiattita su scatti di crimine e di arresto. Come mai succede questo?
In termini pratici questo succede perché, attraverso l’indicizzazione visiva di Google, possiamo vedere facilmente emergere il responso relativo all’utilizzo che i media fanno di queste parole. Parole che su giornali, blog, riviste e siti web vengono usate, spesso, solo per parlare di crimini. Non si tratta di un’opinione, ma di un dato. Un dato che emerge attraverso una rapida lettura della visualizzazione a tabella derivata dalla ricerca di queste parole su Google.it. Per farla breve: perché in percentuale ogni volta che un giornale utilizza una di queste parole, la maggioranza delle volte la usa in relazione a dei crimini e quindi l’associa a una foto segnaletica dei criminali in questione.
Ciclicamente negli USA, le distorsioni di Google sono oggetto di critiche. L’ultima accusa risale a una manciata di giorni fa, e imputa a Google la facilità riscontrata da Dylann Roof nel reperire informazioni che lo hanno portato alla radicalizzazione. Ma alla base di Google esiste un meccanismo complesso costituito da algoritmi in continua evoluzione.
Teniamo presente che l’indicizzazione di Google ci aiuta semplicemente a sviscerare in termini di dati alcuni atteggiamenti mediatici. Questi atteggiamenti con ogni probabilità esistevano anche nell’era pre web, ma semplicemente, non essendo facilmente indicizzabili da chiunque, non era possibile avere un riscontro così chiaro dell’utilizzo complessivo di un determinato termine.
Dunque sostieni che Google abbia reso solo più evidente il nostro razzismo?
Nell’immaginario collettivo italiano queste criminalizzazioni etniche sono presenti – ripeto – già precedentemente all’era web, e in un certo senso proprio l’indicizzazione, che le rende così evidenti, potrebbe portare una società a riflettere su tali discorsi a modificarne il comportamento collettivo. È questo quantomeno uno degli utilizzi più auspicabili del mondo numerico-digitale.
Così Google diventa un termometro della costruzione del nostro immaginario. È questo come si interseca con l’arte?
Più che di termometro si tratta di una tabella infinita che contiene tutto; vediamo questa o quella parte della tabella, in relazione alla ricerca effettuata. Comunque trattasi sempre di uno strumento di misurazione, come il termometro. Come questo sfiori o non sfiori l’arte non sta a me dirlo. “Cosa succede se?” Questa è una domanda da cui volentieri mi faccio accompagnare. Anche in questo caso tutto è nato da questa domanda, da quest’atteggiamento. Il risultato sono delle tavole in cui incornicio i responsi visivi che Google immagini (italia) restituisce a determinati input: rumeno, tunisino, marocchino, nigeriane. Un altro aspetto significativo è che per avere un risultato visivo simile con delle facce italiane, bisognerà utilizzare la parola pregiudicato, e allora si, di nuovo compaiono una serie di foto-segnaletiche. Il che non fa altro che confermare l’alto livello di criminalizzazione a cui sono sottoposti i precedenti vocaboli utilizzati come input. Le nostre ricerche in rete per immagini sono dei tabulati che oltre a restituirci quello che stavamo cercando ci danno – per ogni ricerca – diverse altre informazioni, basta saperle leggere. Questo il senso della mia operazione.
Credi che questo influenzi in qualche modo il nostro immaginario?
Il nostro immaginario è influenzato dall’uso che i media hanno fatto del termine e non dal risultato della ricerca su Google. Anzi, a mio avviso tale risultato essendo così inquietante, dalla matrice quasi lombrosiana, se letto secondo una metodologia logica può addirittura aiutare a invertire il senso di marcia. Può aiutare a renderci più consapevoli dell’utilizzo che si fa di queste parole, parole che rappresentano delle nazionalità degli individui e non un’appartenenza a dei gruppi di criminali. Lazlo Moholi Nagy affermava che “colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro”. Forse, e piuttosto, l’analfabeta del futuro sarà colui che non saprà leggere i dati. Il mondo digitale numerico è uno strumento che ha delle potenzialità di controllo immense. Ma questa potenzialità di controllo non è unidirezionale. Al contrario le tecnologie digitali permettono a chiunque – almeno in parte – anche di controllare, e non solo di essere controllati.
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