Scrivere sui muri è una forma di fascismo?

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2 Maggio 2022

AVVERTENZA: l’articolo riflette la situazione di Bologna

Ormai, in Italia, le scritte sui muri sono diventate parte integrante del paesaggio urbano. Siamo talmente abituati alla loro presenza che non ci badiamo nemmeno più. Nelle grandi città queste ricoprono ogni superficie verticale. Nei casi più estremi, neppure gli alberi vengono risparmiati. Vedere i centri storici delle nostre città vandalizzati è un qualcosa che diamo per scontato e di cui non ci importa più nulla. Ma siamo condannati in eterno a subire questo stato di cose o si può cambiare?

Prevaricazione e classismo

Per prima cosa occorre puntualizzare un’ovvietà: scrivere sui muri è un atto di prevaricazione, sempre e comunque, perché significa imporre sé stessi nello spazio condiviso. Per un writer un muro è solo un muro, una superficie su cui tracciare una tag, ma è evidente che questa visione è limitata. Quasi sempre i muri sono parti di case. Per via del fatto che al loro interno abitano inquilini, queste non sono riducibili alla somma dei materiali con cui sono costruite. Le case non sono soltanto un insieme di cemento, mattoni e intonaco, bensì il luogo dove le persone scelgono di trascorrere la loro vita. Lo spazio sacro dove l’uomo custodisce i sogni, i pensieri e i progetti, suoi e della sua famiglia. Con la propria dimora l’essere umano intesse un profondo legame psichico e si può dire che essa sia un’estensione affettiva del suo corpo e della sua mente, un prolungamento di quella porzione fondamentale della sua identità policentrica e diffusa. Le scritte, alterando in maniera violenta una parte della casa, inficiano questo legame e provocano disagio.

Poniamoci la domanda di chi subisca maggiormente le scritte sui muri: la risposta è senza dubbio la classe popolare. Infatti le persone abbienti vivono in luoghi in cui le bombolette non possono arrivare, cioè in ville in campagna o sulle colline, protette da siepi, cancellate, sistemi d’allarmi e cani da guardia. Oppure, se abitano in città, tendono a risiedere in attici, a un’altezza non accessibile ai writer. Quindi ne consegue che chi è colpito maggiormente dalle scritte sono gli abitanti dei condomini ai piani terra, cioè lo strato economicamente più svantaggiato della popolazione che, ovviamente, deve pagarsi anche la ripulitura dei muri. Di solito poi, si tratta di case popolari e non di condomini di pregio, perché questi hanno spesso accessi riservati. Riassumendo: ai ricchi i muri puliti, i poveri si arrangino. Ciò è oscenamente classista. Crediamo non esista atto più reazionario e vigliacco del vandalizzare una casa popolare.

L’opinione della gente

Vi è la diffusa opinione che le scritte sui muri siano espressione delle masse, per via del becero motto: «muri puliti, popolo muto», che riduce tutto il popolo a un’accozzaglia rozza e istintiva, capace di esprimersi solo scrivendo su un muro. È vero il contrario, perché la gente comune odia le scritte sui muri, e con ragione, visto che gli deturpano le case. In certe frange della sinistra c’è la malsana idea che la massa sia composta prevalentemente da sciatti imbecilli incolti e che i poveri siano in grado di apprezzare esteticamente solo le tag, in quanto naturale modalità espressiva della loro classe cognitivamente limitata, aderendo in maniera spietata alla rappresentazione che di essi ha la classe economicamente dominante e diventando uno stereotipo.

I writer lasciano il loro segno ovunque, con endemica progressione batterica. Pur rappresentando una porzione infinitesimale della popolazione italiana, la loro presenza è iper-rappresentata. Se un numero fisiologico di scritte è indice di una città in movimento, creativa e quindi sana, una loro sovrabbondanza non può che produrre diseguaglianze nell’equilibrio visivo delle città, perché un cambiamento quantitativo porta sempre anche a un cambiamento qualitativo.

Se chi vive in periferia si azzarda a dire che non vorrebbe più scritte e prova a chiedere un poco di pulizia, cura e non sia mai, eleganza, viene subito additato da intellettuali come Christian Raimo e Wolf Bukowsky, per cui il decoro e l’ordine sono sempre un dispositivo coercitivo di controllo, come pericolosi neo-liberisti. Tutto ciò è grottesco, ancora una volta fortemente classista e quindi paradossalmente anti-popolare. Basterebbe spendere un poco di tempo in un qualsiasi gruppo whatsapp di quartiere per rendersi conto che le persone chiedono disperatamente più decoro e pulizia solo perché vogliono vivere meglio, ma è più comodo bollarli come fascistoidi.

Atteggiamento psicotico

Qualunque psicologo sarebbe concorde nel dire che uscire ogni notte per scrivere il proprio nome in maniera ossessiva su qualsiasi superficie esistente e incentrare per anni la propria vita su ciò è un comportamento palesemente psicotico. Reiterare così tante volte una singola azione esprime un profilo pericolosamente compulsivo. Come dicono i DSA COMMANDO in Balaclava, «quando ci cadi è dipendenza, esiste solo quello». È chiaro che questo è un atteggiamento malsano, totalizzante e quindi totalitario, per quanto possa risultare affascinante. Non è hardcore, dimostra solo mancanza di consapevolezza. Certo, anche i cattivi scrittori sono consumati dalla medesima febbre. La differenza è che di uno scrittore io scelgo di acquistare il libro, la sua pessima arte non mi è imposta a forza mentre cammino.

Tra l’altro questo comportamento esprime appieno la classica caratteristica di stampo familistico e mafioso degli italiani, cioè il perseguimento del puro interesse personale a discapito del benessere della comunità. Il writing si pone come sistema chiuso e autoreferenziale, ma un fenomeno culturale non può essere mai impermeabile agli stimoli esterni, perché la vita e la natura umane sono co-costruite, altrimenti il rischio è quello di sviluppare un’attitudine autoritaria ed escludente. Chi scrive su un muro, sia pure con gradazioni differenti di gravità e con motivi di partenza diversi, è del tutto uguale a chi getta i fazzoletti per terra, chi lancia mozziconi dai finestrini e chi scarica rifiuti abusivi nei fossi.

Ma la nostra è arte

Solitamente chi scrive sui muri (anzi, più che chi scrive sui muri, chi parla di chi scrive sui muri) si difende da questi paragoni sostenendo che sia arte. Ecco, questa affermazione non ha alcun senso. Prima di tutto, immaginiamo che qualcuno trovi la maniera di scaricare rifiuti in maniera artistica, per esempio, che so, di plasmare statue con scorie nucleari e di interrarle nei campi, tutto ciò diventerebbe quindi legittimo? E ancora, la quasi totalità delle scritte sui muri è dilettantesca e di artistico non ha nulla: non vi è né un serio studio del lettering, né della superficie, né del contesto urbano, sono solo rudimentali aggregati di linee tracciati letteralmente a caso senza alcun senso.

Non è che scrivere su un muro vada condannato a priori, ma se si decide di esercitare violenza, occorre prima di tutto trovare un motivo valido per farlo, e secondo occorre come minimo cercare di tendere alla perfezione. Se tutti i writer fossero come Luca Barcellona o Masito e avessero le abilità di un calligrafo o di un amanuense, se portassero cioè le forme delle lettere alla loro massima capacità espressiva, allora non ci sarebbe stato nessun motivo per scrivere questo articolo.

Chi difende i writer usa l’argomento che nel caso delle scritte sui muri non conta l’abilità tecnica, ma l’intento artistico. Cioè, il solo fatto di eseguire un gesto attribuendogli un significato artistico da parte dell’autore basterebbe a rendere l’opera arte. Questa idea è palesemente falsa, perché ogni opera esistente viene eseguita dall’autore con un qualche motivo. Se così fosse allora dovremmo per forza considerare arte tutti i libri, tutti i quadri, tutti i film, tutte le canzoni e le poesie esistenti, a prescindere dal loro valore, perché tutte, anche le più insulse, sono composte seguendo una pulsione artistica. Fortunatamente così non è. Infine, chi ha stabilito che costruire, intonacare e dipingere un muro con tutte le accortezze sia meno artistico del disegnare una (brutta) scritta? In base a quale criterio? Sicuramente vi è più ingegno, abilità e impegno dietro un muro che dietro una scritta fatta male. In definitiva, non è arte, ma se anche lo fosse, sarebbe cattiva arte, perché l’arte non può peggiorare la vita delle persone, o se lo fa, deve almeno essere sublime.

La colpa è dei giovani

Bisogna dirlo con forza, in questo caso la colpa è dei giovani, perché sono esclusivamente loro a scrivere sui muri. Purtroppo, a giudicare dallo stato pietoso delle zone in cui questi trascorrono il tempo libero, è evidente che una consistente porzione di essi giudica il degrado come unico orizzonte di vita. Bologna, dove si trovano migliaia di scritte del tipo «diffondi il degrado» e «degrado mon amour» è l’epicentro italiano di questa giovanile imbecillità. Del resto, è normale che sia così. In una società in cui ai giovani è stato strappato tutto, in un Occidente in macerie, il degrado diventa per i giovani un fattore identitario a cui aggrapparsi. Molti non hanno mai conosciuto altro. Inoltre, per anni certo culturame massimalista ha ripetuto che il degrado è bello e apprezzabile, perché artistico, proletario e rivoluzionario.

Animati da un ribellismo infantile e sterile essi si dedicano con pienezza e compiacimento ad affondare nel disagio, esteriore e spirituale. La cedevolezza, il malessere e il fallimento vengono introiettati come tratti generazionali, con grande gioia del sistema culturale italiano che vi specula abilmente sopra. Essi lavorano con costanza per apparire (ma non essere davvero) feccia white trash con l’obiettivo di definirsi per contrasto, aderendo in maniera totale al modo in cui li considera chi detiene il potere, senza pensare che quando il povero si pensa, anche per finta, come lo pensa il ricco, questo ha vinto e ogni tentativo di lotta di classe è neutralizzato. Essi si scagliano con forza contro tutto ciò che è bello, antico, ben fatto, elegante e piacevole alla vista, perché non possono accettare che esista qualcosa che non rifletta i loro canoni. Ecco dunque la fascinazione perversa per la decadenza, la rozzezza, le brutture, la violenza, il caos e le malattie mentali, in cui “fare schifo” diventa motto di resistenza al capitale senza capire che ne fa il gioco, divertissement beffardo bohèmien e rifugio consolatorio. Si tratta tuttavia di un degrado puramente cosmetico, privo di sostanza e incoerente (perché essi sono disposti a indulgere alla piacevole estetica insurrezionale e teppista del degrado e nel farlo non si fanno problemi a rovinare la vita degli altri, ma poi non vogliono giustamente accettare il degrado reale di guadagnare settecento euro al mese per un full time rovinando la propria) che infatti trova la sua dimensione ideale sui social.

È un vivere male da privilegiati, perché chi davvero conduce un’esistenza misera, lotta con tutte le forze per migliorarla, non gioca a stare ancora peggio. Incitare a questo feticismo del degrado è un’offesa mortale a chi non ha un lavoro, chi non arriva a fine mese, chi è cassaintegrato, chi vive per strada, chi soffre di un disagio psichico. Diffondendolo attivamente essi escludono ampie fette della popolazione (gli anziani e i bambini ad esempio) da settori delle città, che vengono stuprati secondo questo nuovo paradigma, e peggiorano volontariamente le condizioni di vita della popolazione. Ciò è ancora una volta anti-popolare, anti-socialista (perché più le condizioni delle masse sono misere più sono orientabili dal capitale) e quindi reazionario. Di fatto, le scritte sui muri rafforzano lo status quo invece di abbatterlo e favoriscono i grandi aggregati di potere come le banche e le multinazionali, che hanno le risorse per garantirsi muri puliti, operando uno scarto estetico tra le loro eleganti sedi e i quartieri popolari, lasciati al degrado.

La componente geopolitica

Nessuno ci pensa, ma le scritte sui muri hanno anche una componente geopolitica. Perché Mosca e Shangai sono così ordinate e pulite? È semplice, perché Putin e Xi Jinping hanno capito che ordine e pulizia delle città sono un mezzo formidabile per guadagnare consenso interno, acquisire prestigio agli occhi del mondo ed esercitare così il soft power. In campo internazionale nessuno, almeno nell’ ambito culturale, prende sul serio uno Stato che non riesce a produrre o garantire il valore della propria bellezza.

Per questo motivo la macchina della propaganda cinese si affanna tanto attraverso pagine come China Daily a mostrarci sui social immagini meravigliose del paese, perché la guerra tra democrazia e regimi totalitari oggi si combatte anche su questa linea. Sappiano i writer quindi che ogni singola scritta sui muri è un favore diretto alle dittature e fornisce materiale a imbecilli prezzolati come Lambrenedetto XVI per dimostrare che le democrazie (almeno la nostra) sono irrimediabilmente in crisi.

Le orrende pseudopoesie

Da alcuni anni sui muri si affiancano alle tag delle vere e proprie frasi. Queste hanno pretese di poeticità, tanto che i loro autori si definiscono spesso poeti. Esse piacciono tantissimo, al pubblico e anche agli editori, perché vendono e imitano lo stile di dilettanti insipidi come Rupi Kaur, Gio Evan e Atticus. In questi componimenti (?) non vi è davvero nulla di apprezzabile. Sono banali, sciatti, sfiatati e sembrano scritti da analfabeti. Non vi è un briciolo di ricerca o impegno. Essendo composti in una lingua rudimentale e sfasciata, spacciata tuttavia come spontanea, che indulge allo straccionismo emotivo, leggerli a lungo andare disarticola le capacità linguistiche del lettore, disabitua al pensiero complesso e ne pialla la ricchezza emotiva. Rende, in parole povere, più stupidi, come leggere un post di Tosa.

Altro che rivitalizzazione della poesia, come si ciancia sui giornali, questi testi sono un epifenomeno dei social e al massimo possono essere accostati alle didascalie di Instagram. Ne riproducono infatti il vuoto pneumatico, la pulsione pubblicitaria e il persistente, ma privo di sostanza, sovraccarico visivo gassoso, che induce allo scrolling noncurante. Insomma, si tratta di una forma di scrittura dissanguata di ogni intensità e coerenza, che obbedisce solo a oscene logiche commerciali di riproducibilità compositiva. La cosa più grave è che questo tipo di testo è sfacciatamente calcificato nella contemporaneità, mentre la poesia dovrebbe essere un diamante beffardo inconsumabile e operare sempre uno scarto nei confronti dei propri, anzi di tutti i tempi.

Il poeta dovrebbe essere ostile al mondo, o almeno alle sue rappresentazioni dominanti, non riprodurne le tendenze più in voga, altrimenti il rischio è quello di logorare la parola. Suo dovere sarebbe quello di elevarla al suo massimo potenziale, non magnificarne l’insignificanza. Tutto ciò sta alla poesia come Massimo Bisotti sta alla letteratura ed è spaventoso che Festival di Poesia e critici lo tengano in considerazione. L’unica reazione adatta alla sua lettura è una bestemmia. Scrivere male è permesso solo a chi ha grande talento, non può essere canonizzato. Le pseudopoesie, oltre a rovinare i muri, rimbecilliscono le masse, e rimbecillire le masse è ancora una volta reazionario.

L’impossibilità di raggiungere l’illuminazione

Se Buddha si fosse trovato davanti un ecomostro non avrebbe mai raggiunto l’illuminazione. Per farlo ha avuto bisogno di montagne, alberi, prati e fiori, cioè di immergersi in una natura integra. In città la natura sono i muri e gli ecomostri le scritte. Vi è tra loro esattamente la stessa relazione. L’ecomostro impedisce la contemplazione della montagna così come la scritta impedisce la contemplazione del muro. Tutte le cose hanno una loro essenza, cioè una loro qualità intrinseca, un loro ritmo, che deriva semplicemente dal loro esistere in relazione alle altre cose.

Noi per esempio ci sentiamo bene quando siamo in salute, cioè quando portiamo al massimo potenziale l’esistenza delle nostre componenti connesse al mondo, slegata da ogni scopo. Il nostro bene è semplicemente nell’essere. Così è per il muro e per qualsiasi altro ente. La qualità della scritta confligge irrimediabilmente con la qualità del muro. Più esso mostra uno stratificarsi di varie qualità, che sono altrettanti significati, più il conflitto si intensifica e le due esistenze si ritrovano in opposizione. Per questa ragione una tag sul pilone di cemento di un cavalcavia non ci crea problemi, anzi può essere anche bella, mentre una tag su un palazzo rinascimentale ci provoca dolore.

La differenza è che il primo ha una qualità limitatissima, perché obbedisce solo allo scopo di sostenere il ponte e dunque non c’è alcuna competizione tra i due enti. Il secondo invece ha una qualità altissima, perché è il risultato di molteplici abilità umane e fattori creativi e il suo fine è dato da un secolare accumulo di usi diversi. Scriverci sopra è come recidere un fiore o coprire un prato a bitume, cioè forzare la molteplicità di un oggetto verso un unico obiettivo, che è l’essere di mero supporto a una tag. In questo modo il muro perde tutte le sue specificità. Non solo si fa torto al palazzo, ma anche alla scritta, perché la competizione tra le due qualità ne limita la fruizione delle caratteristiche, che invece sarebbero apprezzate ad esempio su un foglio, o se si realizzasse l’opera tenendo conto del contesto.

La continua manomissione del sensibile attraverso il senso della vista che operano le scritte, la sua costante risignificazione violenta rende impossibile la contemplazione del mondo (cittadino) perché lo scontro delle qualità distrugge l’armonia, che è un adagiarsi spontaneo e naturale delle cose su altre cose. L’assenza della contemplazione porta all’impossibilità di silenziare l’ego e senza silenziare l’ego non possiamo raggiungere la serenità che consiste nell’abbandonarci al circostante e farci invadere da esso, a immergerci nella rete dei legami che tiene la marmellata dell’universo.

La meditazione contemplativa richiede di mettere la mente in uno stato di assenza di sé, (non) porsi in uno stato di non – sforzo e fondersi nella percezione dell’ambiente: i fiori, il cielo, le persone, i colori e le forme dei palazzi. Sentire la sensazione del sole e del vento sulla nostra pelle, l’aria che passa nelle narici e nella bocca. Il problema è che se vedo una tag o una scritta sul muro, io devo uscire dal mio stato di non-sforzo e compiere attivamente uno sforzo per interpretare quel segno, o meglio lo scontro che quel segno instaura col muro e il contesto. Il segno è stato creato con lo scopo di disturbare e infatti esprime a pieno la sua natura: disturbare il passante. L’imposizione di fruirne mi forza a tornare dal grande al piccolo e a uscire dal qui e ora. Tutto ciò è una seccatura che mi obbliga ad abbandonare il mio stato di rilassamento. In questo modo si impedisce a chi abita in città di provare benessere passeggiando, e impedire alle persone di provare benessere è reazionario.

Vi è un senso del decoro, opposto a quello neo-liberista e trasversale a tutte le culture, che nasce dalla libera, benefica ed egualitaria attitudine alla cura, antichissima e innata, il cui attributo fondamentale è l’amore. Scrivere sui muri e intestardirsi in una apologia ultra-retorica del vandalismo propria delle sinistre antagoniste significa impedire alle persone di esercitare questo sentimento di cura nei confronti del luogo in cui vivono, quindi di creare una connessione psichica e sentimentale col paesaggio urbano. Lo spossante brusio visivo delle scritte nega ai cittadini l’accesso al Senso, che può emergere solo nel silenzio della tinta unita o nell’accordo non profanato di multipli elementi cromatici, cioè da un ambiente in cui sia presente il senso del Sacro a-rituale e a-religioso.

È ora che i giovani (e tutti gli altri) comprendano che ogni espressione di interiorità ha il suo luogo e il suo tempo, e questo non già per l’esercizio di una superiore autorità regolatrice, ma perché essa è il tempo e il luogo in cui si esprime al meglio. Il sacro diritto a fare ciò che vogliamo non può essere confuso con la pretesa di fare ciò che ci pare, ne è anzi la sua antitesi reazionaria, perché solo il più forte può permettersi di fare ciò che gli pare in spregio agli altri. Assestare i nostri desideri su quelli degli altri è un esercizio di libertà, forse l’unico che valga la pena.

A Bologna, in Strada Maggiore, qualcuno ha tracciato una tag su una colonna di marmo del Portico dei Servi, che risale al milletrecento. Era appena stato restaurato. In Cirenaica, sul murale dedicato al partigiano Ilio Barontini, un idiota ha disegnato una tag. E questi sono solo due delle centinaia di migliaia di esempi che si potrebbero fare. Giudichi il lettore se è ignoranza bestiale, fascismo o entrambe.

TAG: arte, contemplazione, geopolitica, muri, scritte, tag, writere
CAT: Arte, Paesaggio

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