Attualità
Buen Camino. Il cinepanettone di Checco Zalone intimista
Un film trash che ribalta la volgarità nel suo contrario, aprendo alla speranza di una Europa migliore.
Se nella storia della letteratura teatrale si racconta sempre che l’apparire della profondità psicologica dei personaggi è un segno di maturità culturale di una civiltà, nel caso della civiltà post televisiva in cui viviamo, la maturità di Checco Zalone arriva con una introspezione inaspettata e un flashback narrativo durante… una anamnesi rettale.
Buen Camino, cinepanettone con Checco Zalone del 2026, segna il ritorno di Gennaro Nunziante alla regia e racconta la difficoltà della convivenza familiare e fra generazioni.
Nell’incipit del film Buen Camino è riassunta la donchisciottesca avventura del cinquantenne di belle speranze che in preda al panico da mezza età corteggia ventenni in realtà trentenni, il cui dramma principale è non poter sfoggiare adeguatamente la ricchezza ereditata in un mondo di diseguaglianze.
In questo contesto il ritorno di Gennaro Nunziante alla regia riesce a ridare a Checco Zalone lo spirito irriverente e trash da post televisione che rifiuta il teatro e ammicca al Tik Tok, perso nel tentativo di Tolo Tolo. Tutto il film è costruito da micro unità narrative e gag che possono reggere interruzioni pubblicitarie infinite, da una scrittura a prova di attenzione zero, in cui parlano paesaggi, simboli e architetture con la speranza che aprano una vera narrazione. Il film lavora su molti piani, la gag, la voce fuori campo, la narrazione e la meta narrazione. Riuscendo a rimanere completamente trash. Uno sforzo non da poco, pieno di citazioni degli esordi di Gennaro Nunziante scrittore di Televisione di serie B. La tazza del bagno era la protagonista di un quiz televisivo di Telenorba negli anni novanta. La tazza ritorna nella sigla finale del film come oggetto d’amore e di affezione post duchampiano.
Una storia che descrive la contemporaneità e la disarmante volgarità di questi anni ribaltandola nel suo contrario, non risparmiando le fughe nell’intellettualismo, nel comunitarismo, nell’illusione che l’arte salvi tutto. C’è solo una desolante grande delusione e la speranza che siano le nuove generazioni ad accorgersi in tempo del vuoto che gli viene prospettato come futuro.
Una favola natalizia che è anche una riflessione sulla piccola e media impresa italiana, sulle sue pecche e virtù, sull’incapacità della generazione X di diventare padri e madri, di una generazione α che deve inventare dei genitori e generarli al contrario.
Una favola al fondo desolante e spietatamente sincera che non salva nessuno, ma lascia la speranza di una Europa migliore. Non poco per una anamnesi di quel genere. Buona visione!
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