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Criminalità

Sharenting: i genitori come condivisori seriali delle foto dei figli

di Alessandro Picarone
9 Gennaio 2018

Un sano rapporto genitori-scuola dovrebbe educare i minori ad una sana condivisione e ricerca di informazioni e a mantenere relazioni sociali sane e proficue per lo sviluppo della personalità: in parte, e solo apparentemente, questa è stata la logica alla base di MsnKids, lanciata negli USA un mese fa. Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica (qui ho espresso una serie di dubbi sull’effettiva efficacia sia di questa nuova app, sia di una presenza incontrollata dei minori sui social).

In realtà, i minori non sono soltanto presenti sui social quando spontaneamente decidono di aprirvi un profilo, con tutte le possibili conseguenze che la presenza in Rete di un minorenne senza controllo né educazione digitale comporta. La presenza dei minori, ancor di più: bambini, avviene anche quando la vanità dei genitori è talmente tanta che cominciano a voler condividere in modo seriale le foto dei rispettivi figlioli, dando così vita a un fenomeno in forte diffusione definito sharenting (termine coniato dal Wall Street Journal nel 2014).

La questione è relativa alla condivisione di immagini e video dei bambini a soli fini esibizionistici: non vedo altra spiegazione alle orde di neonati di ogni età, rigorosamente espressa in mesi, peso e sesso, che invadono le bacheche di Facebook. Varie le problematiche derivanti da una condivisione estrema delle immagini di neonati inconsapevoli del destino che li aspetta.

Primo: come ricorda il Garante della privacy, i social non sarebbero al di fuori del raggio d’azione dei pedofili. Il condizionale è d’obbligo, ma è comunque meglio evitare di pubblicare compulsivamente foto di pargoli.

Secondo: le foto sono una miniera di informazioni per chi le sa guardare attentamente. I pedofili, o qualunque altro tipo di malintenzionati, possono scoprire scuole, palestre e interessi di persone indifese (quali sono per l’appunto i bambini) esponendoli a rischi per la loro sicurezza (su questo punto, e su quello precedente, si rimanda a un’inchiesta dello scorso maggio effettuata dall’Espresso). La regola aurea è, per tutti, di non condividere nulla che non mostreremmo in pubblico. Ancora meno quello che potrebbe geolocalizzare le abitudini dei vostri figli.

Terzo: comprensibilmente i vostri figli sono la luce dei vostri occhi, ma alla maggior parte dei vostri contatti non interessa un fico secco che il vostro pargoletto preferito abbia cominciato a camminare, abbia detto la prima parola o abbia un futuro come tuffatore solo perché sa fare bene i tuffi a bomba. Quindi non avete nessun motivo di condividere queste informazioni con persone che, sostanzialmente, sarebbero più interessate a fissare il nulla per mezza giornata. La speranza è sempre che i genitori passino più tempo a educare i propri figli, meglio con il buon esempio, evitando un uso indiscriminato dei social, piuttosto che glorificare il proprio ego per il tramite di bambini indifesi.

Quarto: state creando una reputazione digitale di cui i vostri bambini potrebbero non essere contenti. In Francia, stante la vigente legislazione, i genitori possono essere denunciati dai figli, una volta diventati adulti, per aver condiviso immagini in Rete senza il loro permesso: ciò perché i genitori sono ritenuti responsabili nei confronti dell’immagine dei propri giovani rampolli.

Siete proprio sicuri che i vostri figli saranno contenti, una volta cresciuti, di essere esposti, commentati, taggati, magari sbeffeggiati, o esposti a seri rischi solo per soddisfare la vostra vanità e per alimentare l’ipocrisia – e la scarsa originalità – dei commenti della gran parte dei vostri contatti?

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