La riforma del diritto di famiglia è satata varata il 19 maggio 1975

Diritti

La riforma del diritto di famiglia ha 50 anni, ma è ancora giovane

Il diritto di Famiglia, ri-normato nel 1975 con la L.151, ci ha sollevato delle storture della Famiglia Verticale, fatta a immagine dell’Uomo e solo somiglianza con la Donna. Ma, malgrado i suoi 50 anni, è ancora foriera di ulteriori trasformazioni migliorative.

19 Maggio 2025

Il 19 maggio verrà ricordato come il giorno della Famiglia perché in quel giorno del 1975, con l’approvazione della legge 151, prese corpo la riforma del diritto di famiglia. Il Parlamento italiano si concesse una medaglia al merito per aver applicato finalmente numerosi articoli della Costituzione vocati al diritto della Persona costituita in ambito sociale e nel suo primo tassello di composizione, quella familiare. Fu votazione unanime nel segno di una condivisione sociale e politica, avulsa da implicazioni religiose o dogmatiche ma impregnate tutte del principio del rispetto e libertà della Persona anziché dell’Individuo.  Su questa base si tastò l’unanimità del Parlamento e delle sue componenti politiche da cui solo il Movimento Sociale Italiano restò estraneo e non poteva essere diversamente.

Parità dei coniugi nei diritti e doveri, abbandono della concezione patriarcale della Famiglia a vertice maschile, avulsione della discriminazione di figli nati fuori da quel contesto matrimoniale, furono tutti elementi di diritto presenti esplicitamente o più spesso indirettamente riferiti in Costituzione.

La L.151 appartiene al novero di quei provvedimenti nati dalla Resistenza, soprattutto quella non guerreggiata di combattenti a mani nude e cervello aperto. Il riferimento storico d’obbligo è quello dei radunati nel ridotto del Convento di Camaldoli tra cui molti poi dirigenti della DC come Fanfani, La Pira, Dossetti, economisti del vaglio di Ezio Vanoni, Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari- Aggradi e altri ancora. Mattei no, non c’era, stava per andare sui monti a fare resistenza armata ma questo non impedì che la sua più grande impresa, l’ENI, fosse frutto delle teorie di Keynes che lui non conosceva ma che gli erano state trasmesse fluidamente dai compagni economisti della Valtellina, i Morbegno Boys capitanati da Ezio Vanoni, poi Ministro delle Finanze e anche Bilancio nei Governi centristi fino a quando morì in Parlamento il 16 febbraio 1956 mentre preparava il Piano Decennale di sviluppo 1955-1966.

La legge sull’ENI, del 1953; quella della nazionalizzazione dell’Energia elettrica (1962) , il primo atto politico del nascente centro-sinistra moroteo ( la legge però fu approvata dal Governo Fanfani in transizione nel giugno 1962), infine la Legge più importante, l’istituzione dello Sviluppo del Mezzogiorno, invocata da Saraceno a imperitura riparazione dell’improvvida vicenda sul brigantaggio di cui la Commissione d’Inchiesta del lontano 1860 poco o nulla volle capire. Fu il primo esempio di legge Riformista, promulgata nel 1946 in cui Saraceno produsse la sua cultura di economista e sociologo ispirandosi anche ai principi di giustizia sociale invocati ripetutamente e mai ascoltati di Giustino Fortunato, economista meridionalista che cercò di orientare i governi della Monarchia prefascista verso un concetto ampio di giustizia sociale. Amico e collega di personaggi come  Napoleone Colajanni sr, Sidney Sonnino e Benedetto Croce,  fondò l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno. Eppure, si badi bene non era di sinistra né tanto meno socialista, era un uomo illuminato della destra che per primo vide profilarsi l’orrore fascista.

Il filo d’oro del Riformismo italiano post-bellico che trova nei personaggi citati il suo punto di aggancio, conclude l’iter delle Leggi citate con le due di Luigi Mariotti, senatore Socialista e vocate alla riforma degli ospedali (L. 132/1968) e poi nel 1978 con al L.833, l’istituzione del SSN quale espressione del riconoscimento dell’art 32 Cost. sul diritto della Persona di essere tutelato nella salute, ovunque e comunque.

Dal 1970 al 1978 le leggi sull’interruzione di maternità e sul divorzio misero nel mirino le tante storture esistenti che si frapponevano all’applicazione della Costituzione in tema di libertà e di diritti civili.  Con la legge 151 del 1975, il Legislatore si indirizza al fondamento del tessuto sociale, la famiglia che poteva sostenere la comunità sociale solo se fosse sano nel suo interno e privo di contraddizioni.

Dalla famiglia verticale si passa ad uno sviluppo orizzontale del nucleo con figli che crescono nell’alveo di una struttura, con tutte le differenziazioni possibili, almeno privata di quegli impedimenti che limitavano diritti e palesavano solo doveri

Cadde la patria potestà, si produsse la parità dei coniugi nella coppia e soprattutto cancellata la discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio. Una riforma decisiva nello sviluppo giuridico e sociale del paese che riconobbe alla donna una condizione di completa parità con l’uomo, all’interno della famiglia, e garantisce la tutela giuridica dei cosiddetti “figli illegittimi”.

A questo punto, inscritta la L151 tra i pilastri legislativi riformisti, non resta che intravedere, sia per il suo intrinseco sviluppo privato di storture sia per il successivo step sociale, se l’inserimento della Famiglia, ormai “ sanificata “ come la stiamo disegnando, non rivesta un ruolo tra i Beni Comuni Sociali.

Il dibattito sui beni comuni che la Commissione Rodotà aveva evocato, ci ha in questi obbligato ad una fredda e pedissequa ripartizione tra 1) Beni comuni Pubblici e sociali, quelli ad appartenenza pubblica che soddisfano interessi generali fondamentali, opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale. Oppure 2) beni pubblici sociali. Sono quelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della personale, case dell’edilizia residenziale pubblica, gli edifici pubblici adibiti a ospedali, istituti di istruzione e asili; le reti locali di pubblico servizio erogati. prestazioni. decreti legislativi. esclusione delle foreste, che rientrano nei beni comuni; 3) beni pubblici fruttiferi. Sono quelli che non rientrano nelle categorie indicate nei numeri 1) e 2). In particolare tutte le utilizzazioni di beni pubblici da parte di un soggetto privato con il pagamento di un corrispettivo rigorosamente; essi sono alienabili e gestibili dalle persone giuridiche pubbliche con strumenti di diritto privato.

Come si legge una classificazione che non esce dal giuridico e non si rivolge alla Comunità. Più appropriata la classificazione di Cirulli-Irelli e De Lucia [1] che distinguono 4 ambiti. Il primo è valoriale, perseguibile attraverso politiche pubbliche che necessariamente fanno capo agli organi di governo della collettività quali la salute, l’istruzione, le politiche sul lavoro, e, più in generale, i diritti sociali. Il secondo ambito annovera i Beni Immateriali, oggetto di attività intellettuale o appropriazione a fine di lucro (alcune tecnologie, come il software, immagini di opere d’arte, la conoscenza e l’accesso alla cultura, le formule di farmaci necessari per curare gravi patologie a carattere pandemico, lo stesso genoma umano). Nel terzo ambito vanno le “cose in senso giuridico” che si presentino funzionali all’esercizio di diritti fondamentali ed al libero sviluppo della persona umana: di esse deve essere assicurata la fruizione collettiva, a prescindere dalla tradizionale distinzione tra proprietà pubblica e proprietà privata. Infine, nel quarto ambito si colloca “la porzione di spazio fisico sede d’insediamento delle collettività: il territorio (e lo spazio urbano), il paesaggio e l’ambiente.

Risulta evidente che ai fini della crescita collettiva e al mantenimento dello sviluppo raggiunto la Famiglia si pone al terzo posto dei beni Comuni, se la legislazione visionaria vorrà considerarla. Una componente essenziale, come recita la classificazione, “funzionale all’esercizio di diritti fondamentali ed al libero sviluppo della persona umana”.  Bene Pubblico perché inscritta come alveolo della società e Bene Privato perché ne racchiude l’intimo.

Più che al lessico di distinzione di genere converrà qualificare in senso giuridico il ruolo della Famiglia quale Bene Comune Sociale, comunque sia formata, qualunque il suo indirizzo purchè condiviso, quale pietra primaria della collettività sociale, indipendentemente dai gruppi sociali organizzati.

[1] V. CERULLI IRELLI, L. DE LUCIA, Beni comuni e diritti collettivi, in Pol. dir., 2014, 6 ss.

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