Giornalismo
Lettera a Roberto Saviano
Una crepa disegnata al centro della scena
Roberto,
parto da qui. Hai fatto qualcosa che in pochi hanno avuto il coraggio di fare. Hai scoperchiato mondi che stavano comodi nel buio. Hai dato nomi, cognomi, strade, odori. Hai rimesso in circolo la paura come fatto umano e non come destino criminale. Questo non te lo toglie nessuno. Nemmeno chi ti odia. Nemmeno chi ti deride. Nemmeno chi ti vuole muto.
Ma ora viene il resto. Da anni sembri avvitato nello stesso gesto. La denuncia che diventa posa, la rabbia che diventa ruolo, la ferita che diventa marchio. Non ti parlo da detrattore. Ti parlo da uno che ha visto la stessa trappola in tanti: restare prigionieri di ciò che si è fatto di grande. Il coraggio di ieri che diventa il recinto di oggi.
Ti sei messo al centro della scena e forse era inevitabile. Ma c’è un punto in cui la scena divora. Quando ogni frase pesa come se dovessi salvare il mondo. Quando il silenzio sembra una resa e la tua presenza deve sempre essere all’altezza del tuo stesso mito. Ma la realtà non assegna medaglie. Ma la realtà non ti deve niente. Nemmeno riconoscenza.
Quello che hai fatto resta. Quello che sei diventato pesa. E pesa soprattutto perché rischia di coprire ciò che potresti ancora essere. Ti vorrei vedere un giorno senza la smania di incarnare il martire civile della nostra epoca. Il martire non si fa profilo. Il martire non fa rassegna stampa. Il martire non diventa mestiere.
Tu non sei un simbolo, Roberto. Sei un uomo. E gli uomini cambiano, si sporcano, sbagliano, cadono. Vorrei vederti cadere almeno un istante. Vorrei vederti rinunciare a difendere tutto, a spiegare tutto, a essere tutto. Perché è lì che torna il coraggio, quello vero. Quello che non ha pubblico. Quello che non si filma. Quello che non si monetizza. Quello che non chiede niente.
Hai aperto crepe nel mondo. Ora aprine una in te stesso. È l’unico modo per restare vivo e non diventare solo un personaggio che sopravvive al proprio corpo.
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