Immigrazione

Re-immigrazione: la parola rubata che divide il mondo

26 Agosto 2025

Negli ultimi anni, in ogni angolo del pianeta, il dibattito sull’immigrazione ha assunto toni sempre più cupi e polarizzati. In Europa, come nel Regno Unito o in Francia, ma anche in paesi lontani come il Giappone, una parola risuona con insistenza crescente: “re-immigrazione”. Un termine che, all’apparenza, potrebbe sembrare neutro o persino positivo, ma che, nel linguaggio della nuova estrema destra internazionale, ha assunto un significato sinistro.

Nella sua accezione originaria, il termine indicava semplicemente il ritorno volontario di un emigrato nella propria patria, spesso dopo una lunga esperienza all’estero. Una scelta libera, intima, individuale. Molti migranti, nel corso della storia, hanno fatto questa scelta: tornare a casa, riabbracciare la famiglia, investire i risparmi accumulati, ricominciare da dove tutto era iniziato. Nulla di minaccioso, nulla di oscuro.

Oggi, però, “re-immigrazione” è diventata l’etichetta di un progetto ideologico ben diverso. Sotto questa parola si cela l’idea di una sorta di deportazione di massa soft, mascherata da atto di giustizia sociale o di difesa identitaria. I leader populisti, dal Reform Party britannico a Sanseito in Giappone, passando per il Rassemblement National in Francia e la Lega in Italia, hanno fatto di questo concetto un pilastro della loro retorica: rimandare indietro chi, a loro giudizio, non appartiene davvero alla comunità nazionale.

Chi sono le persone da “re-immigrare”? Non più solo i migranti arrivati di recente. La definizione si allarga a rifugiati, naturalizzati, persino a figli e nipoti di immigrati nati e cresciuti in Europa. Una categoria vaga e arbitraria, che può comprendere chiunque venga percepito come “troppo diverso”: troppo musulmano, troppo africano, troppo visibile, troppo altro.

Questa retorica si regge su un vecchio mito complottista tornato prepotentemente alla ribalta: la “sostituzione etnica”. Secondo questa teoria paranoica, le élite globali favorirebbero volontariamente l’arrivo di migranti da Africa e Medio Oriente per “rimpiazzare” le popolazioni europee bianche. Una narrazione senza alcun fondamento, ma che ha attecchito in ampi settori dell’opinione pubblica, fornendo benzina a politiche discriminatorie e ad atti di violenza. Non è un caso che alcuni attentatori degli ultimi anni abbiano rivendicato i propri gesti proprio in nome della lotta alla “sostituzione”.

Il fenomeno non riguarda più soltanto l’Europa. In Giappone, il partito Sanseito, nato su YouTube, ha costruito la propria popolarità su un messaggio chiaro e xenofobo: “Prima il Giappone”. Secondo gli analisti, il probabile successo elettorale del partito è dovuto al fatto che, da destra a sinistra, una larga parte della società nipponica sostiene politiche di chiusura verso gli stranieri. Negli ultimi tempi, gli attacchi contro immigrati e minoranze si sono moltiplicati, segno che il linguaggio politico produce effetti concreti, alimentando tensioni e normalizzando l’odio.

Nel Regno Unito, invece, il leader del partito populista in testa ai sondaggi ha promesso di affrontare l’aumento dei flussi migratori con misure drastiche. Una campagna che si innesta su un clima già teso, segnato da proteste contro gli hotel che ospitano richiedenti asilo e da violenti episodi di intolleranza.

Il filo rosso che lega queste esperienze è l’uso strumentale della paura. Invece di affrontare la questione migratoria con pragmatismo e realismo – gestendo i flussi, promuovendo integrazione, garantendo sicurezza senza sacrificare diritti – i populisti preferiscono alimentare la percezione di un’invasione, di una minaccia esistenziale.

Le parole, però, non sono mai innocue. La trasformazione semantica della “re-immigrazione” è emblematica: ciò che un tempo indicava un gesto di libertà individuale diventa oggi il simbolo di un progetto di esclusione collettiva. E non è un caso che, accanto a questa retorica, si siano moltiplicati pogrom e attacchi xenofobi, come avvenuto di recente nel Nord Irlanda.

Il linguaggio prepara il terreno. Quando si definisce un gruppo come “non assimilabile”, si legittima l’idea che non meriti di appartenere alla comunità. Quando si diffonde la paura della sostituzione etnica, si spiana la strada a chi pensa di dover “difendere” la propria identità con la forza.

Il parallelo con i fantasmi del Novecento è inevitabile. Il termine “re-immigrazione”, così come viene oggi usato, ricorda da vicino le prime fasi delle politiche razziali dei regimi totalitari, quando l’esclusione veniva mascherata da misure amministrative, da provvedimenti di ordine pubblico. Prima delle deportazioni vere e proprie, ci fu sempre un lessico che addomesticava l’orrore, che lo rendeva presentabile.

A questo proposito, risuonano ancora le parole pronunciate da Miguel de Unamuno nel 1936, in piena guerra civile spagnola, di fronte al generale Millán Astray. Quel celebre “Venceréis, pero no convenceréis” resta un monito attuale: la forza bruta può imporsi, ma non potrà mai persuadere, perché la persuasione richiede ragione e diritto.

Oggi, chi brandisce la bandiera della “re-immigrazione” sembra muoversi lungo la stessa traiettoria di chi, nel secolo scorso, esaltava la violenza come strumento politico. È un linguaggio che non convince, ma che rischia di vincere, perché sa sfruttare la paura e il risentimento.

C’è, tuttavia, un modo per sottrarre questa parola al suo destino di veleno semantico. Ricordare, anzitutto, il suo significato originario: la libertà di scegliere di tornare. Una decisione individuale, rispettata e tutelata, non imposta dall’alto. La vera “re-immigrazione” è un gesto di appartenenza e di amore, non di esclusione.

E soprattutto, occorre smontare con pazienza le teorie complottiste che alimentano l’odio. La società europea, come quella giapponese o britannica, non è minacciata dalla diversità, ma dall’incapacità di governarla. Le democrazie si rafforzano se sanno accogliere, integrare, trasformare la pluralità in ricchezza. Si indeboliscono quando cedono alla tentazione di costruire nemici immaginari.

Il paradosso di oggi è che, in nome della difesa dell’identità, rischiamo di perdere ciò che costituisce davvero la nostra identità democratica: il rispetto dei diritti, della dignità umana, della libertà individuale. Come ricordava Unamuno, la forza può piegare, ma non convincere. E senza convinzione, nessun progetto politico può durare.

La sfida è allora questa: restituire alle parole il loro senso autentico, difendere la ragione dall’assalto della paura, impedire che il grido di “Viva la morte” torni a risuonare sotto nuove forme. Perché una società che esalta la morte dell’altro, in realtà, firma la propria condanna.

Purtroppo le democrazie sono sempre più fragili e frasi come quelli di “Viva la morte” o come diceva Unamuno, di “morte alla vita” sembrano prevale. Nella “morte alla vita” stanno concetti xenofobi , di re-imigrazione che, anche partiti conservatori, pur di non perdere elettori fanno propri. Una azione che rende ancora più forti i sovranisti , perché l’elettore tra la “copia” e l’ “originale” preferisce il secondo. I tempi diverranno sempre più duri e le democrazie stanno lentamente cedendo alle forze che a loro si oppongono.

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