Italia

Povertà educativa

In Italia, 431.000 giovani tra i 18 e i 24 anni hanno lasciato la scuola. Non per scelta, ma per silenzio. Non per disinteresse, ma per assenza di sguardi. La povertà educativa non si misura in pagelle, ma in vite che smettono di credere di potercela fare

15 Luglio 2025

431.000. Tanti sono i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che, in Italia, hanno lasciato la scuola prima di completare un ciclo di istruzione superiore. Non sono incidenti, né disattenzioni. Sono uscite vere. Ferite aperte. Il 9,8% del totale. Un numero che migliora solo se lo guardi da lontano. Era il 10,5% l’anno scorso. Il 12,7% due anni fa.

Dentro questa curva che scende lentamente c’è un’altra curva che sale e divide. Perché, se nel Centro-Nord l’abbandono scolastico è sotto il 7%, in Sicilia supera il 25%. In alcune province arriva a uno studente su tre. In Sardegna supera il 20%. Nei quartieri difficili delle città cresce. Tra i figli di stranieri arriva al 25,5%. I maschi abbandonano più delle femmine. Il 12,2% contro il 7,1%. Ma il punto non è chi cade. Il punto è che nessuno li vede cadere. Nessuno li aspetta. Nessuno li cerca. Per questo non possiamo parlare solo di istruzione. Dobbiamo parlare di una forma nascosta di povertà. Una povertà educativa che non si misura in libri o in crediti formativi. Ma in sguardi negati, in tempo sottratto, in parole che nessuno ha insegnato a dire.

La povertà educativa non è solo mancanza di scuola. È l’assenza di adulti stabili. Di maestri veri. Di tempo gratuito. È un vuoto che comincia molto prima dell’ultimo banco e dura molto dopo l’ultima campanella. Non è una questione di strumenti, ma di presenza. Si può avere una LIM in classe e non avere nessuno che ti chiami per nome. Si può avere un bonus libri e non avere un padre che ti ascolta. La scuola dovrebbe essere lo spazio dove si può sbagliare senza essere scartati. Invece troppo spesso è il luogo dove si misura, si valuta, si seleziona. E chi non tiene il passo, cade. Si parla di dispersione. Ma non si disperdono numeri. Si disperdono vite. E ognuna ha un nome. Un volto. Una storia. Dietro ogni abbandono c’è una resa. Ma anche una sconfitta collettiva. Perché chi lascia la scuola, non lascia solo i libri. Lascia una possibilità. Un codice per leggere il mondo. Un futuro che non sa più immaginare.

In troppi quartieri d’Italia il sapere è ancora un privilegio. E dove il sapere è un privilegio, la democrazia è una finzione. La scuola, da sola, non può colmare tutte le disuguaglianze. Ma quando smette di provarci, quando accetta di diventare filtro e non ponte, perde la sua natura. E lascia indietro chi avrebbe più bisogno.

La povertà educativa è strutturale. Non si combatte con progetti spot. Né con eventi. Serve continuità. Cura. Visione. Servono adulti che stiano. Che restino anche quando fa fatica. Come ha spiegato bene Maddalena, servono comunità che leggano i volti, non solo i voti. Perché solo chi viene guardato, comincia a credere di poter imparare. Solo chi viene ascoltato, inizia a parlare. Solo chi viene nominato, esiste. E serve che almeno un insegnante chiami un ragazzo per nome. Serve che almeno una volta qualcuno gli dica che ce la può fare. Serve che la scuola torni a essere gesto, compagnia, non algoritmo o strumento. Non bastano i dati. Non bastano le statistiche. Non basta dire che stiamo migliorando. Serve andare a vedere dov’è che stiamo ancora perdendo. Dove i numeri non parlano. Dove le voci si sono spente. E ripartire da lì. Da chi non ha più parole. Da chi ha smesso di scrivere. Da chi non riesce a leggere sé stesso.

Un Paese che lascia quattrocentomila giovani fuori dalla parola, fuori dal pensiero, fuori dalla possibilità di raccontarsi, è un Paese che si arrende al silenzio. Ma forse c’è ancora una domanda che possiamo fare. E se tuo figlio, oggi, ti dicesse: “Non so più dove stare”… tu, cosa gli risponderesti?

 

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