Italia

Il male sono io, sei tu. L’epidemia morale che attraversa le nostre case

Non è follia, non è devianza, non è eccezione. È un’epidemia morale che attraversa le nostre case, i nostri corpi, le nostre parole. Ogni giorno. Il problema non è fuori. È dentro. E ci somiglia troppo

26 Giugno 2025

Un uomo uccide la compagna davanti alla figlia. Un diciottenne colpisce il padre con una spranga. Una donna accoltella la madre perché le ha chiesto di sparecchiare. Due ragazzi pestano a morte un coetaneo per uno sguardo storto. Un anziano viene lasciato nudo in corsia. Un medico insultato. Un’infermiera spinta. Un ragazzo aggredito sul tram. Un barista preso a bottigliate. Ogni giorno. Nessuna eccezione. La cronaca non ci lascia tregua. Non per le guerre, ma per quello che accade in casa nostra. Nel tinello. In ascensore. Al bar. Come se il male fosse diventato una lingua quotidiana. Senza accento. Senza clamore.

Eppure, non funziona niente. Non la legge. Non la paura. Non la pena. Perché chi colpisce non sente più il confine. Non sa più che l’altro esiste. Non lo vede. Non lo riconosce. Non lo desidera nemmeno. Il problema non è la mancanza di freni, ma l’assenza di struttura. Chi agisce non ha più un io sufficientemente forte da reggere un no. Un ritardo. Una delusione. Vive come se tutto fosse suo, e se qualcosa sfugge, allora distrugge. È la psiche senza pelle. È l’identità costruita solo sul bisogno. Sull’urgenza. Sull’affermazione immediata. E sotto ancora, c’è il fallimento del desiderio. La sua regressione a volere. A possesso. A capriccio. Non c’è più simbolizzazione. Non c’è più distanza. Solo una fame cieca. E una rabbia che si traveste da giustizia. Ma la violenza non è solo dei ragazzi.

Anche l’adulto ha smesso di reggere. Anche l’adulto colpisce, insulta, deride, evade, fugge. L’adulto ha imparato a usare le stesse armi. Più sottili, più infami, più legali. Ma la grammatica è identica: reazione, vendetta, rivendicazione. Il gesto violento non è un errore educativo, è il riflesso fedele di un mondo adulto che ha disimparato la fatica della relazione. L’adulto non contiene. Non accompagna. Non mostra una via. L’adulto compete. Umilia. Si vendica. Si espone. Non insegna più niente, perché non sa più dove stare. E allora la violenza esplode ovunque. Non come anomalia. Ma come linguaggio condiviso. Come unica forma di affermazione rimasta.

Quando la parola viene meno, quando il pensiero si ritira, il corpo prende il sopravvento. E colpisce. Urla. Distrugge. Non perché è malato. Ma perché non ha altra lingua. E questo la legge non lo sfiora. La prevenzione è una parola vuota, se non c’è un adulto che tenga la scena, che abiti la parola, che dica: io ci sono, e non mi sposto. Ma non basta esserci.

Bisogna ricominciare a parlare, anche quando non c’è dialogo. Bisogna riscrivere la grammatica, con pazienza, come con chi ha dimenticato l’alfabeto. Serve dire “tu” quando l’altro tace. Serve dire “no” quando tutto spinge al sì. Serve accompagnare, anche quando si è odiati. E ripetere. Ripetere ogni giorno che il legame è possibile. Che la realtà non è nemica. Che l’errore non è l’ultima parola. Solo una presenza incarnata, ostinata, disposta a perdere tempo, a perdersi per l’altro, a non chiedere nulla in cambio. Educare non è spiegare. È farsi trovare lì. Quando tutto crolla. Quando tutto urla. Quando tutto sembra inutile. È esserci ancora. Anche dopo. Anche se. Anche quando non serve. E allora, la domanda resta: chi è disposto a perdere tutto, pur di tenere in piedi qualcuno?

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.