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Il Dalai Lama compie 90 anni. E la Cina continua a temere la sua voce
Il Dalai Lama compie 90 anni. Lo ha fatto con il sorriso sulle labbra, davanti a migliaia di fedeli che lo hanno accolto nel tempio di McLeod Ganj, nel nord dell’India. Ma sotto i festeggiamenti, si è riaffacciata con forza una questione rimasta irrisolta da decenni: quella della libertà del Tibet e della successione spirituale a una guida che Pechino considera ancora oggi un nemico dello Stato.
Tenzin Gyatso, riconosciuto a due anni come il XIV Dalai Lama, è il volto più autorevole della resistenza tibetana. Fuggito in India nel 1959 dopo la repressione dell’insurrezione di Lhasa, vive in esilio a Dharamshala da più di sessant’anni. Il Partito Comunista Cinese continua a considerarlo un separatista.
L’invasione e la «liberazione pacifica»
La propaganda comunista racconta che nel 1950 la Cina ha «liberato» il Tibet dal feudalesimo. In realtà, ha invaso uno Stato di fatto indipendente, con un proprio governo, esercito, lingua e religione.
Ha firmato un accordo in 17 punti, sotto ricatto, promettendo autonomia e rispetto. Poi ha occupato, represso e avviato una lunga campagna di distruzione sistematica dell’identità del popolo tibetano.
Negli anni ’50 e ’60 migliaia di monasteri sono stati distrutti, i monaci deportati, le preghiere vietate e i simboli sacri bruciati. La cultura tibetana è stata dichiarata «arretrata» e «superstiziosa», e sottoposta alla rieducazione maoista. La popolazione ha reagito, ma la risposta di Pechino è stata brutale.
Da allora, oltre 100.000 tibetani hanno seguito il loro leader nell’esilio, dando vita a una diaspora organizzata che ancora oggi lotta per sopravvivere culturalmente fuori dalla propria terra.
La Cina comunista non ha mai tollerato il carisma e l’influenza internazionale del Dalai Lama. Lo accusa di voler dividere il Paese e considera ogni richiesta di autonomia come una minaccia all’unità nazionale. Inoltre, teme il potere simbolico e spirituale che la sua figura continua a esercitare, non solo tra i tibetani, ma anche nel mondo. Per questo cerca di cancellarne il ruolo, controllare la reincarnazione e assimilare la cultura.
Il Tibet è un laboratorio di controllo
Oggi la regione autonoma del Tibet è uno dei territori più militarizzati del mondo. L’esercito cinese è ovunque. Le telecamere sorvegliano villaggi e templi. Le immagini del Dalai Lama sono vietate. I monasteri funzionano solo sotto la supervisione del Partito. I bambini vengono educati in scuole dove si insegna il mandarino e a venerare Xi Jinping.
In questo contesto, il controllo sociale e ideologico ricorda da vicino le distopie descritte da George Orwell nel suo romanzo 1984. Ogni gesto è sorvegliato, ogni parola potenzialmente sospetta, ogni pensiero non conforme un pericolo. La spiritualità non approvata dallo Stato diventa sovversione, mentre il culto del leader prende il posto di ogni altra fede.
Chi esprime dissenso, spesso viene arrestato e torturato. Organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch denunciano da anni detenzioni arbitrarie, controllo religioso e campi di rieducazione. Il Tibet è diventato un laboratorio di quello che il Dragone ora applica anche a Xinjiang con gli Uiguri e cerca di esportare altrove: la cancellazione dell’identità, la distruzione della memoria, l’annientamento spirituale.
La partita della reincarnazione
Durante la cerimonia per i suoi 90 anni, il Dalai Lama ha ribadito che sarà solo il suo ufficio a designare il prossimo successore, mettendo in guardia contro le manovre cinesi. Ma Pechino, com’è già accaduto con il Panchen Lama, punta a nominare un Dalai Lama controllato, addestrato e obbediente.
Dopo la morte del Panchen Lama nel 1989, la seconda figura spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha riconosciuto nel 1995, come sua reincarnazione, Gedhun Choekyi Nyima, un bambino di sei anni. Tre giorni dopo l’annuncio, il piccolo e la sua famiglia sono stati prelevati dalle autorità cinesi e non si sono mai più visti. È oggi considerato il più giovane prigioniero politico del mondo.
Al suo posto, Pechino ha imposto un altro bambino, Gyaltsen Norbu, allevato sotto il controllo del Partito Comunista. Ma per la maggior parte dei tibetani, quel Panchen Lama non ha alcuna legittimità.
Cosa significa oggi opprimere il Tibet
Oggi il Tibet rappresenta per la Cina molto più di una questione etnica. È un nervo scoperto. Pechino non tollera una voce morale che da oltre mezzo secolo chiede dialogo, spiritualità, rispetto e libertà. Il Dalai Lama smentisce l’ideologia del potere assoluto e mostra che si può opporre resistenza senza violenza. La sua sola esistenza è un ostacolo all’autorità totale del Partito.
Reprimere il Tibet serve a inviare un messaggio chiaro: alle minoranze etniche, a Hong Kong, a Taiwan e al resto del mondo. Chi contesta Pechino, sarà messo a tacere. Per questo, per la leadership cinese, un uomo anziano, disarmato, pacifico e venerato in tutto il mondo è un pericolo.
Dietro i sorrisi e le celebrazioni, la battaglia è ancora aperta. A 90 anni, il Dalai Lama è ancora la coscienza del Tibet. E la sua eredità resta un fronte simbolico e concreto, tra libertà spirituale e dittatura ideologica.
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