
Mondo
La «memoria a singhiozzo» nel tempo del vittimismo sovranista
Scrivo in anticipo, perché non credo che domani sarò smentito. Se lo sarò meglio.
Il 18 agosto 2015 non è entrato nel calendario civile dell’umanità. Lo stesso vale per Khaled al-Asaad, l’archeologo, custode di Palmira, torturato, ucciso, decapitato e “mostrato al mondo” nella violazione del suo corpo quel giorno, il 18 agosto 2015. Semplicemente non fa parte della memoria collettiva. E infatti nessuno ne h parlato, almeno fino ad oggi.
Non dipende dalla smemoratezza, ma da una «memoria a singhiozzo» che si fonda su due dati distinti, ma connessi.
Il primo riguarda a che valore simbolico rinvii “Palmira”; il secondo riguarda il codice culturale della cancel culture.
Primo dato.
Palmira è un simbolo, e un luogo, come scrive lo storico Paul Veyne, che nel tempo produce meticciato culturale. Ovvero un luogo di incontro tra codici culturali distinti che producono qualcosa che contemporaneamente è l’insieme di molte cose non condivise e la cui coabitazione produce una nuova forma di esperienza sociale e culturale. Una realtà di “saggezza meticcia”. Ovvero: cultura che si costruisce per incroci, sovrapposizioni, ibridazioni. Una cultura che non è “figlia di un dio minore”, ma che è “di più”.
È una dimensione oggi in caduta libera che non esercita nessun fascino. La reazione si modella sul principio “se la conosci la eviti”. Il meticciato non è più una condizione, è un vulnus nella sensibilità culturale di questo nostro tempo, soprattutto da parte di chi (conservatore o innovatore, voglia presentarsi come una risposta alla crisi di questo nostro tempo.
Secondo dato.
Nelle dinamiche di mobilitazione che si riconoscono sul principio della cancel culture, il termine di progresso si identifica con liberazione da un passato imposto. Ovvero deliberazione di decolonizzazione dallo straniero. In questa dimensione di decolonizzazione qualsiasi evento a carattere distruttivo, indifferentemente che si manifesti con spargimento di sangue o meno, assume la dimensione di atto liberatorio.
Un secondo elemento caratterizza questa dinamica che la rende protagonista di questo nostro tempo (e che la manterrà protagonista per un tempo molto lungo): la giustificazione vittimaria che fonda l’atto.
La cancel culture ha a suo fondamento un torto subìto, che va riparato e che non si estingue nel tempo.
Vendicarsi dal passato diviene il codice fondativo dell’agire pubblico.
È la nostalgia a dare legittimità a questa modalità operativa, culturale e politica. Meglio è la candidatura della propria immagine di passato contrapposta a quella definita, costruita e legittimata dalla cultura in precedente egemone e, soprattutto, estranea a quella della propria identità.
Questa condizione non prevede né una fine né una tregua. Quel torto è assunto come irreparabile. altrimenti si perde il vantaggio di dare sanzione e rivendicare la riparazione del torto.
Non ci sono realtà politiche indenni e non ci sono stati che sorgeranno da questa dinamica che rappresenteranno il bene. Il fine della loro azione sarà non perdere la rendita di posizione acquisita.
È fondato pensare, come scrive Enrico Pellegrini, che questa condizione contribuisca a definire questo nostro tempo come il ritorno della guerra come norma.
Ma questa guerra, appunto si sostiene su un principio vittimario non su su un diritto. La differenza è molto semplice: il principio vittimario è ego-riferito e non è disposto a riconoscere ad altri la stessa condizione; il diritto si accredita come codice universalistico e, dunque. chiede che sia riconosciuto perché vale per tutti.
In breve una «memoria a singhiozzo» proria del tempo del sovranismo imperante. Non so se quel tempo sia iniziato il 18 agosto 2015, ma quella data è comunque un segno del carattere, delle fobìe e della guerra culturale di questo nostro tempo. Non è né un’eccezione, né una deviazione. È il nostro tempo.
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