Viaggio nelle montagne del Nordest: “Ripartiremo ancora, come dopo il Vajont”

16 Marzo 2021

Belluno – Ai margini del Nordest ruggente, quello che nel secondo Novecento è cresciuto a ritmi che oggi chiameremmo cinesi. Ai margini, anche, del Veneto turistico di Venezia, fiumane di russi e arabi e red carpet, finchè si è potuto, o dello scintillio di neve e brillanti, a Cortina d’Ampezzo. Benvenuti a Belluno, insomma, terra di mezzo che sta a fondo valle: le radici quasi sempre sono piantate lassù, ma lo sviluppo ha svuotato le pendici e riempito le pianure. Prima quelle della Serenissima e poi quelle del mondo. “Spopolamento” è una delle parole che si dicono più spesso. Un termine sociologico che è poi la storia delle valli italiane. Un viaggio, spesso di sola andata, verso il basso. Per studiare, lavorare, vivere. Terre sottoposte, lungo i decenni, alle frane e alle alluvioni. Chi è fuggito allora, oggi, con le città diventate prigioni spaventose e luoghi del morbo, troverà chi è pronto a occupare quei posti vuoti da decenni, lassù?

Fotografia di Filippo Romano

“La nostra storia imprenditoriale nasce con uno studio di Geometra di Santo Stefano di Cadore”. Il geometra era padre di quattro fratelli, che per studiare hanno dovuto lasciare la montagna: “Due sono diventati architetti, gli altri due ingegneri”, racconta Raffaele De Bettin, uno dei quattro, che oggi assieme ai tre fratelli manda avanti DBA group, la tipica “multinazionale tascabile” del Nordest, dedita ai servizi. Dal quartier generale del Gruppo, ai bordi di una statale a Villorba, pochi chilometri da Treviso, disegna i tratti di una storia imprenditoriale di espansione, internazionalizzazione e successo. In trent’anni “siamo passati da uno studio professionale a Santo Stefano, dove ancora abbiamo venti professionisti operativi, ad avere circa 650 dipendenti”, di cui 400 sparsi in tutta Italia – dal Nordest a Lecce, ovviamente passando per Milano, Roma e Napoli –  e 250 nei balcani, con un fatturato di circa 70 milioni. Tutto è iniziato con l’idea di aprire uffici a Udine e Treviso, ma ormai è preistoria. “La svolta” prosegue De Bettin, ricostruendo la storia di un’azienda-famiglia che ha gettato il cuore oltre l’ostacolo è arrivata quando “abbiamo iniziato ad avere come clienti aziende strutturate nel campo della telefonia e dell’energia, della logistica, dei trasporti e in particolare dei porti”. Lo “studio” del Cadore si è definitivamente trasformato in una risorsa preziosa per aziende che hanno bisogno di progettazione, direzione dei lavori, project management, servizi tecnologici e informatici, consulenza per la logistica: non necessariamente tutto questo insieme, ovviamente.

Raffaele De Bettin – Foto di Filippo Romano

Foto di Filippo Romano


Sul presente, e su una crisi ancora tutta da scoprire, De Bettin arriva ovviamente con un bagaglio di esperienze ormai solido. “Abbiamo visto la crisi della fine del primo decennio del 2000 da vicino, una crisi globale che incrociava alcuni fattori nazionali specifici. Ad esempio la riforma Bersani, la liberalizzazione delle tariffe professionali che aveva già portato al minimo gli introiti dell’ingegneria e dell’architettura”. A quelle crisi DBA risponde guardando altrove. “Nel 2015 abbiamo acquisito una società slovena specializzata in software, di fatto la seconda società in Slovenia forte in tutti i balcani, ampliando il nostro raggio d’azione ma anche i territori di mercato dell’azienda”. Negli anni, in DBA Group, sono passati sicuramente architetti e ingegneri, ma sempre più spesso informatici, giovani usciti dalle facoltà STEM e qualche umanista. “Ma tanti entrano direttamente dagli istituti tecnici”, prosegue De Bettin, “e spesso avremmo bisogno di lavoratori qualificati o da far crescere con noi, ma non ne troviamo”. No, non è il solito discorso di chi cerca i lavapiatti sottopagati e si lamenta perché non ci sono, è piuttosto uno dei grandi temi del modello di sviluppo di terre artigiane che hanno incontrato l’innovazione, e non trovano abbastanza teste, perché il problema e le carenze non sono nelle braccia. A proposito, com’è atterrato lo smart working su una società come questa? “Onestamente, dal punto di vista tecnologico e infrastrutturale non abbiamo avuto nessun problema, perché essendo una società avanzata che opera professionalmente su sistemi e reti in una settimana avevamo tutto operativo. Certo, il rischio, nel lungo periodo, è lo sfilacciamento dei gruppi di lavoro, la fatica del continuare a sentirsi insieme, se si è lontani…”. Un mondo in evoluzione, sul punto di un cambio di passo irreversibile e ancora da scoprire. “Per esempio, abbiamo dimezzato i nostri uffici di Milano, perché i nostri principali clienti, nel mondo della telefonia, prima ci volevano vicini e presenti con la totalità degli elementi. Ora, ovviamente no”.

Il futuro, naturalmente, è una terra straniera, oggi più che mai. “Abbiamo segnali importanti di ripresa, una ripresa a V, come si dice, potrebbe essere a portata, per il settore. Ma molto, moltissimo, dipende dal sistema di incentivi che saranno messi a terra. Ad esempio, la certezza che resteranno i bonus, in particolare il superbonus al 110%, può essere decisiva per dare la sicurezza che serve a pianificare a investire, e quindi a dare sostanza e continuità alla ripresa. Il momento è cruciale, decidere di far sopravvivere certe misure potrebbe essere fondamentale per la sopravvivenza del settore”. Un po’ come la sopravvivenza delle montagne italiane, della vita professionale e sociale sulle loro pendici potrebbe conoscere nuova linfa dalla trasformazione portata dallo smart working? “Indubbiamente. Ma anche lì, servono prospettiva e investimenti, quelli che siamo cercando di attivare con progetti come Cadore 2030. Bisogna combattere lo spopolamento con la visione, la capacità di trovare incentivi come fanno tanti nostri vicini, la volontà di credere che una montagna vissuta è un bene per tutto il paese”.

Foto di Filippo Romano

Attraversiamo pianure lievemente ondulate e coperte di prosecco, e andiamo verso la montagna. Un grande condotto ci porta dritti a Belluno. La pianura che sente il mare e la laguna da vicino, lascia il posto alle Alpi. Magia di una terra, il nordest italiano, davvero unica al mondo, nel mischiare mediterraneo e dolomite, crostacei e pinot nero: tutto è autoctono, e tutto è meticcio.

Franco De Bon, Foto di Filippo Romano

Foto di Filippo Romano

Anche l’ex sindaco di San Vito, Franco De Bon, uscito sconfitto dalle ultime elezioni comunali “pandemiche” dello scorso settembre, vede alla porta tempi decisivi. Negli uffici della ex Provincia di Belluno, dove ci accompagna l’amico Stefano Campolo, nostra guida nel Bellunese, racconta le fatiche dell’amministratore di montagna. Fatiche “normali”, prima del Covid, che diventano epocali, con una pandemia. Ripartiamo dai tempi, nell’800, in cui da San Vito partirono in tanti per diventare cittadini del mondo, ma soprattutto – chissà come, chissà perché – del New Jersey. E arriviamo in fretta al lungo oggi, valli vuote, seconde case, le vetrine di Cortina a un passo da San Vito.
Nel 2015, ad esempio, una frana provocò tre morti e distrusse gli impianti di risalita nel Comune. Nel 2018 la tempesta Vaia, che lasciò segni sulle alpi e le prealpi in diverse regioni italiane. “E ogni volta che si interviene semplicemente per mettere una pezza, ci si trova poi con problemi più grandi nel giro di poco tempo. Servono opere davvero resilienti, capaci di reggere e di adattarsi ai mutamenti”. I mutamenti, già. Come quello di un piccolo paese, a due passi da Cortina d’Ampezzo ma senza la ressa chic di romani e milanesi in servizio permanente, che in pochi decenni è passato da una storia secolare tutta fatta di agricoltura e pascoli, al turismo comunque costoso e di alto livello dell’ampezzano. “Nei mesi scorsi, soprattutto durante la prima ondata della pandemia, noi amministratori eravamo pressati dai residenti per prendere misure sicuritarie, per andare a stanare quasi casa per casa chi era venuto nelle seconde case”. A prescindere da eventuali divieti, insomma, “c’era una domanda di iper sicurezza, e qualche collega ha in effetti ceduto ed emesso anche ordinanze fantasiose”, oltre che probabilmente anticostituzionali. De Bon racconta con orgoglio di una sua opposizione a queste richieste che – chissà – forse è costata la rielezione. “Dai”, ripete con piglio montanaro, “i forestieri sono andati benissimo negli anni scorsi, quando hanno strapagato terreni edificabili che in precedenza erano buoni solo a far patate, e con i soldi che hanno pagato quelle terre ci sono famiglie che si sono sistemate per generazioni. Non mi sembra accettabile proibire a queste persone di vivere meglio che in città, in un tempo già così difficile”.

La tensione, accentuata fino all’esasperazione dalla pandemia, è poi sempre la stessa. È dentro a questa tensione che si vedono, poi, le discussioni sulla dimensione locale contrapposta a quella globale, i grandi eventi e il turismo lento, le connessioni materiali, che permetterebbero a milioni di persone di raggiungere rapidamente le valli, e quelle immateriali, che consentano a qualche migliaio di vecchi e nuovi residenti di spostarsi meno. “Da tempo parliamo ad esempio di un progetto ferroviario, che ci connetta in maniera rapida e diretta a Venezia, in modo da portare un milione di turisti l’anno quassù”. Tutti progetti da ripensare e rivalutare adesso, con il next normal che inizia adesso, o che inizierà a immunità raggiunta. Già, perché il ritorno dei turisti sarà comunque un processo lento e tortuoso, forse più di quanto immaginiamo. “Su a San Vito abbiamo migliaia e migliaia di case che stanno vuote per gran parte dell’anno”. L’ambizione, l’obiettivo, è far rivivere con più continuità quei luoghi, in sicurezza: “Serve banda larga, e una rete ospedaliera diffusa, ad esempio. Non un ospedalino in ogni comune, ma una rete specialistica con tutto ciò che serve nel raggio di qualche decina di chilometri”. Ambiziosi gli obiettivi: chissà che per una volta un grande evento, le Olimpiadi del 2026, non sia l’occasione per lasciare a terra qualcosa di duraturo.

Andrea Ferrazzi, Foto di Filippo Romano

A due passi dal palazzo della ex Provincia, nel palazzo di Confindustria, incontriamo Andrea Ferrazzi, direttore generale dell’organizzazione datoriale del Bellunese. “Io quel che penso lo dico” sorride, “e questo soprattutto all’inizio della pandemia ha comportato un confronto/scontro molto duro coi sindacati”. Prego, ribadisca pure il concetto. “Mah, io penso che davvero le organizzazioni sindacali non fossero culturalmente pronte per una crisi di questo tipo”. Gli imprenditori naturalmente sì, giusto? “Per carità, era una situazione del tutto nuova, per tutti, e non è stato facile capire, adattarsi”. Ma al di là delle diverse sensibilità e dei diversi ruoli, qual è la fotografia di oggi nella terra di tanti distretti industriali? “Ci sono ovviamente situazioni di seria difficoltà ma, onestamente, il quadro complessivo è positivo. Le prospettive occupazionali, per una terra con una forte vocazione all’industria, come la nostra, sono buone, non vediamo rischi di aumenti della disoccupazione. Anzi, semmai in alcuni settori abbiamo il problema opposto. gli imprenditori spesso hanno carenza più di personale qualificato, che non di infrastrutture”. L’osservatorio degli industriali racconta comunque di un quadro positivo per l’occhialeria, che pure ha subito i divieti di vendite per alcuni mesi del 2020. E, più in generale, una tendenza positiva per l’industria del territorio. Dove, ad esempio, è tornata ad operare con una linea produttiva un nome storico dell’impresa manifatturiera bellunese, la Manfrotto, dopo anni di sole delocalizzazioni. Proprio una telefonata che arriva dai produttori di cavalletti interrompe la nostra conversazione, e Ferrazzi spiega poi così il ruolo di Confindustria in una terra che ha così profonde radici artigiane. “A noi chiedono di essere abilitatori, di accompagnare la crescita, di aiutarli a fare sentire la loro voce su tavoli che stanno anche fuori da qui. Una cosa io la trovo significativa: la business school della Luiss ha tre sedi, in Italia. Roma, Milano e Belluno”. Una cosa è certa, il vecchio modello di sviluppo che ha fatto grande il Veneto e il nordest – grande capacità di lavoro, possibilità di svalutare, un po’ di nero sia a livello di vendita sia di retribuzione – è morto e sepolto, ed averne nostalgia significa non capire che tempo è questo. Ma certo, l’incapacità di certi imprenditori e in generale del sistema politico di accompagnare e sostenere la transizione dell’industria ha lasciato alle proprie spalle morti e feriti. Grandi aziende che hanno fatto la storia, e che oggi ballano sull’orlo del baratro, sempre che non ci siano già cadute. “Proprio per questo mi arrabbio, quando sento enfatizzare le storie di quelli che mollano tutto per andare ad aprire un agriturismo in montagna. Iniziative eccellenti eh, non dico di no, ma quanto pesano nel complesso? Mentre l’industria fa grandi numeri, la sua capacità di stare o meno nella contemporaneità è decisiva davvero per tutti”.

Foto di Filippo Romano

Foto di Filippo Romano

Foto di Filippo Romano

Sembra quasi che Ferrazzi abbia letto nel nostro prossimo futuro. Perché usciti da Confindustria, sulla strada che ci porta alla prossima tappa, un agriturismo immerso tra vigne e boschi e gestita da un avvocato e dalla sua famiglia, incontriamo un presidio sindacale. Ed è proprio davanti a una di quelle aziende che dal Novecento sono uscite con le osse rotte, senza mai ritrovare la loro strada davvero. Quella ACC Wanbao che ha un nome cinese, ormai, a causa di una recente e sfortunata acquisizione, ma pianta le sue radici nel distretto del freddo, cioè delle macchine per refrigerare alimenti e bevande, che ha fatto la storia del bellunese. “Negli anni 90 qui lavoravano duemila persone, per capirci, oggi siamo poco sopra i 300, ma siamo all’ennesimo capitolo di una crisi infinita”. Una crisi che esplode in tutta la sua evidenza nel 2012/2013, con l’amara scoperta di un buco da 450 milioni. Un processo che però non porta ad accertare nessuna colpa. “Assolto” dice, parlando dell’allora amministratore Luca Amedeo Ramella, un rappresentante delle RSU che sono in presidio permanente. La produzione dentro continua, “ma abbiamo cassa fino a fine mese, poi è tutto finito, se non cambia qualcosa”, dice Massimo Busetti, sindacalista della UILM e lavoratore nello stabilimento. Sul grande piazzale all’ingresso dei cancelli, poche macchine e facce tristi. “Questa lotta ci ha portato ad avere anche seimila persone qui, in pieno inverno, numeri spaventosi, un intero territorio che non si arrende alla chiusura”, dice Michele Ferraro, segretario della Uilm bellunese che ci raggiunge mentre fa il giro della provincia. “Mi vergogno quasi di dirlo, perché posso dire di essere molto fortunato, di fronte a colleghi che non hanno in alcun modo meritato la sfortuna che hanno. In provincia abbiamo tantissimi esempi di eccellenza, e di ottime relazioni sindacali. Io ad esempio lavoro per un’azienda che dà circa 5 mila di premialità l’anno, e molti diritti in più rispetto a quelli previsti dal contratto”.
E invece in Wanbao anche il prossimo stipendio sembra un miraggio così come, dopo i passaggi italiani a Zanussi ed Electrolux, il salvataggio cinese si era presto trasformato in un incubo. Quella storia, invece di aprire la strada a una nuova primavera per l’impresa e a un nuovo paradigma di rapporti con la potenza emergente del Terzo Millennio, ha lasciato solo macerie, una proprietà cinese che si è semplicemente volatilizzata lasciando l’azienda in amministrazione controllata, nelle mani di un commissario, a cercare il suo destino in qualche faticosa fusione. “In questo quadro, il cambio di governo per noi ha creato naturalmente nuovi problemi”. Perché mentre si lavorava ad una complicata ipotesi di fusione con Embraco, azienda brasiliana con sede nel torinese, il cambio di governo e il precedente cambio di commissario – uscito di scena Maurizio Castro, uomo del territorio già senatore del Pdl e che ben conosceva la realtà aziendale – sono anche cambiate le deleghe e quindi, potenzialmente, gli interlocutori. In un territorio caro a Patuanelli – ministro uscente dello Sviluppo e a D’Incà – ancora ministro dei rapporti col parlamento e nativo proprio della zona, peraltro come Daniele Franco – non mancano gli interlocutori “naturali”, ma c’è grande confusione per capire chi, adesso, da Roma, si farà carico della storia, e come. Intanto la fine di Marzo, che coincide con la fine dei soldi, è sempre più vicina.

Foto di Filippo Romano

In un territorio che cambia vocazione e destinazione, tra cose che scompaiono e distretti che si stringono, ha fatto di recente la sua ricomparsa un elemento che nel bellunese era andato quasi scomparendo: il vigneto, e il vino. “Per decenni, la pianificazione regionale aveva destinato le nostre terre ad altro, soprattutto alla zootecnia e all’allevamento” spiega Enzo Guarnieri, avvocato, mentre ci accoglie nel suo paradiso, “Ca’ Guarnieri”, che la sua famiglia possiede da un secolo e mezzo abbondante. Sul palazzo, l’effigie di Mazzini e Garibaldi fa capire da che parte stessero gli avi di Enzo. C’è poi una terza figura, difficilmente riconoscibile, che sta sopra a entrambi i padri della patria, e assieme a loro domina dall’alto la vallata che spiove fino a Feltre. “Ci abbiamo messo tantissimo a capire chi era. Pare sia Hiram Abif, che una leggenda millenaria considera l’architetto del tempio di Re Salomone, a Gerusalemme, ed è da sempre considerato un simbolo della massoneria europea”. Il fervore repubblicano, anti-monarchico e probabilmente anti-papalino dei trisavoli di Enzo ha lasciato il posto alla passione per quella terra e per quella casa che Enzo e Dolores portano avanti con impegno. Intanto, da qualche anno, hanno ricominciato con successo a coltivare uva e a vinificare. Rispettando il carattere del posto, le etichette più che al Veneto dei prosecchi e dei Cabernet assomiglia alle Dolomiti dei Pinot neri. Io e Filippo siamo gli unici ospiti del magnifico Agriturismo. Poco lontano, risalendo la collina, la Cantina De Bacco, che tiene le fila dei produttori locali ed è stata pioniera nella reintroduzione delle vigne nel bellunese.

Enzo Guarnieri, Foto di Filippo Romano

“Ogni volta che abbiamo un po’ di prenotazioni, cambiano i colori delle zone o le regole, e arrivano una pioggia di cancellazioni”. Dal suo osservatorio – è anche vicepresidente di Confagricoltura Belluno – racconta di giovani che vogliono restare a vivere in montagna, o tornarci, o trasferirsi. Magari per affiancare attività di turismo e agricoltura sostenibile a professioni che lo Smart Working sta rendendo più facili anche da svolgere lassù. “Ma ogni sondaggio che facciamo ci dice che tutti chiedono una cosa, come precondizione per farlo: ci servono trasporti veloci”. L’obiettivo per non perdere la battaglia contro la tendenza allo spopolamento ha bisogno di visione e investimenti. “Servono trasporti, scuole, ospedali, servizi. Ma anche un po’ di fantasia sia nell’attivazione di reti turistiche intelligenti e coerenti con la nostra storia, che qui ad esempio vanta un’importante tradizione nell’industria del legname”. Molte cose sono andate perdute, in realtà, scommettendo su altre vie per lo sviluppo, salvo poi rendersi conto che quelle vie erano sbarrate, o già saturate dai vicini trentini o austriaci. “Il problema” chiosa Guarnieri “è che se non conservi quello che hai, e lasci che si consumi, poi a un certo punto ti accorgi che non c’è più. E ricostruirlo non è solo molto dispendioso: spesso è semplicemente impossibile”.

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L’impossibilità di ricostruire, di riportare del tutto indietro le lancette della storia, la si vede bene dall’alto della diga del Vajont. Qualche chilometro di curve, da Belluno, ci porta nei luoghi della memoria di una grande tragedia, che ha lasciato cicatrici di dolore non ancora rimarginate del tutto. Erto e Casso sono i due villaggi arroccati che testimoniano, però, una resistenza della vita e dei popoli di queste montagne. E la stessa tragedia del Vajont ci ricorda un’altra cosa: con gli investimenti e la volontà, con la scommessa che ripartire fosse possibile, quelle terre e i loro tenaci abitanti non si fermarono, allora. Succederà anche questa volta, dopo la pandemia.

(Tutte le fotografie sono di Filippo Romano).

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