Si intitola “Last supper in Pompeii” (Ultima cena a Pompei). È la grande mostra che ha aperto da pochi giorni i battenti ad Oxford, presso l’Ashmolean Museum della Oxford University. A parte la sede di prestigio (il museo oxoniense, del resto, è da sempre molto attento all’arte e alla storia dell’Italia), la mostra è degna di nota per vari motivi. Prima di tutto, è la conferma di quanto il mondo, a oltre 1.500 anni dalla deposizione di Romolo Augustolo, continui a essere affascinato dall’universo romano in generale, e da Pompei in particolare: a Oxford come a San Pietroburgo (all’Hermitage è stata inaugurata una mostra su Pompei ad aprile), a New York come a Pechino, dove i saggi sui romani vanno a ruba.
Il secondo motivo è forse più prosaico, ma non per questo meno rilevante. Si dice spesso che la cultura, il cibo e l’arte siano il “petrolio” dell’Italia, in primis del Mezzogiorno. La mostra, incentrata proprio su questi temi, rappresenta una prova tangibilissima della verità di questo assunto. Specie se si considera che Pompei, soltanto nel 2018, ha accolto più di 3,6 milioni di turisti, e che continua ad affascinare l’élite culturale e creativa di tutto il mondo (pochi giorni fa negli scavi è stato avvistato l’attore Leonardo Di Caprio).
Tragicamente distrutta nel 79 d.C. da una catastrofica eruzione del Vesuvio, Pompei era una delle città più ricche, dinamiche e goderecce dell’Impero. E la mostra racconta proprio il rapporto, vivace e intenso, tra i pompeiani e l’enogastronomia di allora. Un rapporto che si tesseva nelle sontuose sale da pranzo delle villae (i cosiddetti triclinia), nelle tabernae e nelle popinae (rispettivamente, i locali di alto e basso livello), nelle soffocanti cucine dove cuochi e schiavi si affannavano a preparare i pasti, nelle tante fattorie e vigne della zona (anch’esse spazzate via in un colpo dalla furia del vulcano), nei piccoli vigneti e negli orti di cui la stessa Pompei era disseminata.
Mangiare bene era così importante che le lastre funerarie potevano essere decorate con le delizie amate dal defunto, come accadeva nella vicina Paestum, e non era raro che cittadini pii offrissero ai Lari (le divinità domestiche) noci, frutta, uova e altre ghiottonerie.
Insomma, quella di Pompei era una vera e propria civiltà alimentare, che la mostra ricostruisce esponendo oltre trecento reperti del vivere quotidiano, come posate, giare e avanzi di cibo carbonizzato preservati dalle ceneri del Vesuvio, nonché tesori e mosaici provenienti da musei italiani e britannici. Spiega a Gli Stati Generali Paul Roberts, curatore della mostra e direttore del dipartimento delle antichità dell’Ashmolean Museum: «Il messaggio che noi vogliamo trasmettere con questa mostra è che i romani erano persone reali e che, a prescindere dalla ricchezza e dal rango, il cibo e il vino erano centrali nelle loro vite. Proprio come lo sono oggi per molti di noi».
Pompei, e l’intera Campania, erano il cuore dell’agroalimentare romano. Qui, per esempio, veniva prodotto il garum, popolare salsa a base di pesce; in un ricettario attribuito al cuoco e gastronomo Apicio, il garum era presente in oltre trecento ricette. Imprenditori pompeiani di genio come il ricco Aulo Umbricio Scauro riuscivano ad esportare le loro bottiglie di garum in tutto il Mediterraneo, inclusa la Francia meridionale. Ma come nota Roberts, le ricette e gli alimenti dei romani arrivavano pure in Britannia, avamposto estremo dell’impero: «I romani portarono qui le galline, i conigli, il cavolo, la lattuga, il sedano, i ravanelli, i piselli, i fagioli, le ciliegie, i fichi, le more, le pere e molto altro».
Erano dei gourmet raffinati, i romani, e come la mostra rende evidente non disdegnavano le sperimentazioni. Del resto la loro era una cucina fusion, che attingeva alle tradizioni culinarie etrusche, italiche e greche. Un altro impero prima del loro, quello di Alessandro Magno, aveva dato alla gastronomia un ruolo fondamentale.
Spiega Carlo Rescigno, docente di archeologia classica presso l’Università della Campania: «La dieta era un aspetto culturale importante delle società mediterranee e del mondo romano. Con l’ellenismo, presso le corti dei Diadochi [i successori di Alessandro Magno], la cucina e i banchetti divennero modi per manifestare le proprie capacità economiche, e per far risaltare le proprie ricchezze e capacità sociali». Tanto che «i grandi cuochi erano contesi dagli aristocratici per la creazione di menu assortiti e ricchi che si accompagnavano a servizi da mensa preziosi, spesso in argento: i siti vesuviani ne hanno restituiti di celebri, come quello della casa del Menandro, con set di piatti, coppe, alzatine, cucchiai; la cena di Trimalcione, nel romanzo di Petronio, forse ambientata proprio a Pozzuoli, ne fornisce un elenco dettagliatissimo».
Se a Pompei, e in tutta la Campania, si mangiava bene, era grazie alla «fertilità della piana e dei luoghi campani, vulcanici e dalla terra opulenta. Frumenti e grani famosi nell’antichità per la preparazione di pani e farine, vini preziosi (a volte liquorosi e medicamentosi), ortaggi e formaggi». Insomma, il Vesuvio era allo stesso tempo una benedizione e una maledizione. Senza di esso, probabilmente, la civiltà alimentare pompeiana non sarebbe fiorita.
Sostenuta dalla banca Intesa Sanpaolo (che intesse da anni una forte collaborazione con l’università di Oxford), e organizzata in collaborazione con il Mibac, il Parco archeologico di Pompei, il Museo archeologico nazionale di Napoli e il Parco archeologico di Paestum, la mostra, osserva Stefano Lucchini di Intesa Sanpaolo, «racconta la vita quotidiana degli antichi romani, e offre un notevole contributo scientifico alla diffusione della storia e della cultura italiana, a partire da scoperte archeologiche anche recenti».
In effetti la mostra getta una luce unica su un mondo – quello di Pompei – per molti aspetti assai simile al nostro (pensiamo solo all’ossessione contemporanea per il cibo), e per altri così lontano. Un mondo che, in ogni caso, merita di essere conosciuto.
Immagine in copertina: mosaico, Museo archeologico nazionale di Napoli
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