E se il paesaggio non funzionasse più?

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5 Novembre 2014

Gli ultimi eventi catastrofici in Liguria e un articolo su Domus circa il rischio di immobilismo procurato dal vincolo Unesco, invitano a riflettere su come si stia trasformando l’approccio al paesaggio. Le due visioni opposte – da un lato la dissipazione fino al dissolvimento del territorio, dall’altro la sclerotizzazione di un’immagine in nome di una fraintesa conservazione – evidenziano quale sia il terreno di scontro su cui si gioca la partita per il nuovo paesaggio. In Italia, soprattutto. Dove ci si accorge di qualcosa soltanto quando è ormai distrutta o se ne continua a parlare a tutti i livelli senza fare seguire un’azione concreta.

Osservando l’abbandono delle campagne, l’inarrestabile avanzate dei boschi, il decadimento dei terrazzamenti bisognerebbe chiedersi: esiste l’obsolescenza paesaggistica? Un paesaggio può essere programmato per invecchiare ed essere sostituito?

Come ci ha insegnato Emilio Sereni nella sua “Storia del Paesaggio Italiano” i cicli delle coltivazioni hanno caratterizzato porzioni della nostra penisola e ogni cambiamento era dovuto alla programmazione nell’uso intensivo o meno del terreno. L’immagine della coltura – con i suoi colori, portamenti – restituiva un paesaggio cangiante e sincronizzato con le stagioni. Oggi che il patto agricolo si è dissolto, per motivi economici che vedono colture fortemente intensive e collocate – grazie alle innovazioni tecniche – in luoghi impensabili naturalmente ma convenienti logisticamente, la costruzione del paesaggio è legate a logiche molteplici, discordanti e rapsodiche. I paesaggi, poi, si sono moltiplicati e non sono più legati a una visione squisitamente agreste, diventando complessi, stratificati, multiscalari e ibridati. La gestione del territorio è diventata difficile, articolata e spesso richiede delle conoscenze che gli amministratori non possiedono o difficilmente individuano. Rispondendo a domande concrete – e complesse – con risposte generiche e, spesso, semplicistiche.

Non è un caso se a ogni dissesto idrogeologico si annovera, oltre a un numero insopportabile di vittime, un dibattito ormai stucchevole su quanto denaro sia necessario per la “messa in sicurezza”. Cosa significhi esattamente, cosa comporti operativamente la messa in sicurezza, però, nessuno lo sa. Diventa una formula pronta, un mantra da ripetere per rassicurare animi e placare ire. E se, in realtà, fosse controproducente? Un accanimento terapeutico su un corpo ormai esanime? Perché non assumere un atteggiamento di triste constatazione simile a quando si porta un elettrodomestico all’assistenza e il tecnico comunica che probabilmente è meglio cambiarlo perché ripararlo costerebbe di più?

Quando nel 2009 un’alluvione devastò il territorio ionico della provincia di Messina, portando con sé 37 persone, tutti affermarono che la colpa risiedeva esclusivamente nell’abusivismo edilizio. Avendo avuto l’onore – anche se poi questo non ha portato a grandi risultati – di lavorare all’elaborazione del piano di ricostruzione del centro maggiormente distrutto, emerse chiaramente che la principale causa del disastro (oltre all’inaspettata “bomba d’acqua”) era da ascrivere all’abbandono o poca manutenzione del sistema agricolo. Il paesaggio visivamente immutato, o poco manomesso, non “funzionava” più. I costi elevati della manodopera e dell’acqua irrigua (nell’ordine di 40 euro l’ora) avevano condannato i rilievi collinari a una lenta e disastrosa obsolescenza. Una delle domande in sede di progetto riguardò, appunto, l’opportunità di ricostruire un abitato in un contesto che, visto il cambiamento nell’uso del territorio, sarebbe stato sempre sofferente. E poco “conveniente”. La domanda provocatoria – che infatti provocò reazioni anche accese – serviva per capire che, ovviamente, i paesaggi sono abitati, contengono storie e vite, vicende storiche e tradizioni nemmeno paragonabili a una batteria di cellulare. Ma che, per fare fronte al costante stato emergenziale in cui la nostra penisola abita quotidianamente, bisognerebbe cambiare modo di vedere il paesaggio. E di strutturarlo. Considerando che, nell’attesa dei piani paesaggistici, sono nati interi quartieri, villaggi turistici e sono scomparse le seppur minime norme di manutenzione ordinaria. La soluzione, però, non può essere la costruzione di paesaggi che ambiscano ad essere riprodotti nelle cartoline, in una finta e immutabile virginea fattezza. Così come appare, per esempio, guardando l’immagine della costiera amalfitana sul sito dell’UNESCO. Perché se, come recita il comma 2 dell’ art.131 del codice dei beni culturali e del paesaggio, “La tutela del paesaggio è volta a riconoscere, salvaguardare e, ove necessario, recuperare i valori culturali che esso esprime”, dobbiamo probabilmente trovare il modo di esprimerci meglio, affinché il nostro paesaggio si strutturi (e venga tutelato) senza diventare un panorama disneyano da immortalare come sfondo dei nostri selfie caricati sul web.

O senza scomparire al primo acquazzone.

TAG:
CAT: Beni culturali, Paesaggio, tutela del territorio

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