Mezzo secolo vagabondo: l’Italia cui appartengo io

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4 Maggio 2021

Loro, Augusto e Beppe, li chiamavano i Monelli. Non avevano nemmeno 15 anni, ed una Reggio Emilia assonnata e contadina, come era nel 1960 e nel 1961, era per loro la “grande città”, perché venivano da Novellara, che aveva poche migliaia di persone sparse tra frazioni e contado, ed alla Scuola Media due ragazzi che non riuscivano a star fermi, che studiavano ma non sopportavano le ore chiusi in classe, li chiamavano Monelli, ma avrebbe potuto essere peggio.

Beppe è un anno più vecchio, e viene da una famiglia che ha anche qualche bestia, un’aia piena di bambini e di voci di compagni (la storia del PCI di Novellara è piena di Carletti, che è il cognome anche dell’attuale sindaca) ha imparato fin da piccino a suonare la fisarmonica e, in chiesa, a suonare l’organo. Ad orecchio, mica per diventare il Bach della Bassa. Beppe scrive melodie, e nel 1963, incontra un ragazzo modenese, molto più grande di lui, che scrive dei testi formidabili, ma che non ha la maestria allo strumento che ha il moccioso di Novellara. Quel ragazzo, nel 1963, si è da poco trasferito alla Cirenaica, a Bologna, in Via Paolo Fabbri 43, a pochi metri dal bar-ristorante da Vito, in Via Musolesi, dove ci si ritrovava tutti per discutere, bere, suonare, cantare, imparare ad amare la vita.

Disegno del fumettista FAM, in cui appaiono tutti gli ospiti famosi del Ristorante Da Vito in Via Musolesi – la crema di mezzo secolo di cultura italiana, da Guccini a Dalla e de André, da Gaber a Fernanda Pivano, da Ivan Della Mea a Ron, Augusto Daolio, Bonvi, Magnus, Vecchioni e chi più ne ha più ne metta

Il ragazzo modenese, l’avrete indovinato, si chiama Francesco, scrive sulla Gazzetta di Modena e suona il rock’n’roll ed il beat per le balere della Via Emilia con una band chiamata I Gatti, alla ricerca di quel West promesso  e mai mantenuto di una generazione che oggi è commozione, ma allora erano discussioni anche litigiose su Edgar Lee Masters, Walt Whitman e Bob Dylan. Sicché Francesco scrive alcuni testi per la nuova Band di Beppe ed Augusto, e li aiuta a trovare le prime serate. Al momento di scegliere il cantante, Beppe prova, direttamente sul palco, una serie di candidati, e poi sceglie il suo amico d’infanzia Augusto. Gli dice semplicemente: va bene, continua tu, ecco i fogli con i testi, ed è bastato quello. Erano nati i Nomadi.

I brani scritti da Guccini portano Daolio e Carletti al successo, ma portano anche Guccini ad una carriera da cantautore tutt’altro che disonorevole. La casa discografica si mette quindi in cerca di parolieri per la band di Novellara e sceglie il giovanissimo Alberto Salerno, figlio di quel Nicola che ha scritto la maggior parte dei testi di Renato Carosone e che, negli anni 60, ha scoperto gli Stormy Six (se non sapete chi siano non fa nulla, continuiamo così, facciamoci del male…) e poi scritto successi sanremesi e canzonissimali per Mino Reitano, Nicola Di Bari e, anni dopo, scriverà le canzoni più fortunate di Eros Ramazzotti e Zucchero Fornaciari.

Nel gennaio del 1972, Alberto presenta a Beppe ed Augusto un testo che voleva evocare quell’anima emiliana di gente sempre in viaggio, mai tranquilla, piena di voglia di andare. Lo mettono a posto, Beppe ed Alberto scrivono una musica che, lo si capisce subito, renderà il brano qualcosa di speciale. Verrà terminato e pubblicato nell’ultima settimana di aprile del 1972 – e da allora è una di quelle canzoni italiane che si contano sulle dita di una mano che ciascuno conosce, che ciascuno commuove, che ciascuno sa a memoria, non importa se ha 16 anni o 60. Io vagabondo.

I Nomadi nel 1969, Beppe Carletti al centro, Augusto Daolio alla sua destra

Nell’estate del 2006 stavo affrontando una situazione, per me, completamente inattesa. Le cose andavano benissimo, la mia neonata azienda guadagnava soldi a palate, ero stato costretto, in fretta e furia, ad assumere sei persone, l’intera gestione del quotidiano mi stava esplodendo in mano, dovevo prendere un paio di decisioni – naturalmente, come Quelo di Guzzanti, scelsi la seconda che aveva detto, e si rivelò sbagliata, ma che importa…

Guidavo da Lugano a Verona per incontrare un cliente, faceva un caldo terribile, l’autostrada era il solito delirio di camion e noia. Dopo vent’anni passati principalmente tra Zurigo ed Erfurt, cercavo di capire quale dei due posti fosse il migliore. Zurigo meglio per i contatti, ma troppo costosa. Erfurt meglio per gli affetti, ma lontanissima da tutti i clienti – e, per la prima volta, mi sentivo di non appartenere, mi sentivo stanco di nulla, ma stremato. Ed alla radio venne Io vagabondo.

In quel momento seppi tutto: appartengo a questo, anche quando lo nego. Mi emoziono, perché sono migliaia di anni che non ascolto più questa canzone, e tutte le altre che adoro di Beppe ed Augusto. Daolio era già morto di cancro, una tragedia. Ma, al contrario da quanto cantato da Augusto e Francesco, non era per tre giorni e poi è risorto – è rimasto un angelo che è morto.

Arrivato in albergo ho chiamato Kerstin e le ho detto: andiamo a vivere in Italia. Il nostro matrimonio ha iniziato a morire in quel momento. Ma non rimpiango nulla, come il Nino Manfredi che strilla GOL in Pane e cioccolata. Una notte di settembre me ne andai, cantavo, ed il fuoco di un camino non è caldo come il sole del mattino. Alla domanda: chissà dov’era casa mia, ora avevo una risposta. Non importa che oggi, quasi 15 anni dopo, anche questo tempo sia finito, ed io mi sia sentito meglio a tornare in Germania. In questo secondo giro ho conosciuto l’Italia come non avevo fatto da ragazzo. Vagabondo che non sono altro.

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CAT: Bologna, Musica

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