White riot, black riot: i Clash in mostra a Bologna

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11 Giugno 2019

«The only band that matters»: recitava così uno slogan e tutti sapevano che si riferiva ai Clash.
Perché la band di Joe Strummer, Mick Jones e Paul Simonon (con Tory Crimes e, in seguito, Topper Headon alla batteria) è stata per molti davvero l’unica band che conta(va).

Nati nella temperie culturale del punk, anche se Strummer (quando ancora si faceva chiamare Woody Mellor) aveva un background pub rock con i 101’ers e Mick Jones un passato proto-punk con i London SS, i Clash rappresentarono l’altro lato della medaglia rispetto ai Sex Pistols.
Se il gruppo di Johnny Rotten era violento, anarchico e nichilista, i Clash al contrario erano energici, impegnati politicamente, propositivi. Se i Pistols cantavano “No future”, Jones e compagni inneggiavano alla rivolta con “White riot” e sul retrocopertina del loro primo omonimo album del ‘77 facevano stampare una foto degli scontri al Carnevale giamaicano di Notting Hill. Più avanti, in occasione del festival Rock Against Racism organizzato dalla Anti Nazi League, il 30 aprile 1978, Strummer si sarebbe presentato sul palco con una t-shirt rossa autoprodotta con la scritta “Brigade Rosse” e al centro il simbolo della RAF, la Rote Armee Fraktion tedesca.
Cosa che era al contempo il segno dell’impegno politico del gruppo e anche la dimostrazione della loro incredibile naïveté.

The Clash © Adrian Boot

In anni molto diversi da quelli in cui viviamo oggi i Clash diventarono un esempio da seguire e il loro culto crebbe dalle poche decine di punk londinesi che li videro in azione agli esordi a milioni di fan sparsi in tutto il mondo. Al loro dichiarato impegno politico andava di pari passo una ricerca musicale che li portò a esplorare e rinnovare la grammatica rock nel volgere di appena quattro anni: dal punk abrasivo del debutto “The Clash” (1977) al crossover del triplo “Sandinista” (1980), passando per il capolavoro assoluto del gruppo, quel “London Calling” che quest’anno celebra i suoi quarant’anni e resta un disco di un’attualità mostruosa.

I Clash erano anche belli da vedere. Se i Pistols giravano bardati dalle creazioni di Vivienne Westwood, Strummer, Jones, Simonon e Headon si autoproducevano le proprie “divise”, utilizzando l’inventiva dell’ex studente d’arte Simonon.
Ed ecco allora giacche di pelle, camicie macchiate di vernice, slogan stampati su t-shirt e pantaloni. Un gruppo che – oltre a colpire per la forza delle canzoni e per il suo impegno politico – “bucava” l’obiettivo delle macchine fotografiche.
Come si può vedere nella mostra “The Clash: white riot, black riot” che s’inaugura domani alla galleria ONO di Bologna e che ripercorre la carriera di uno dei gruppi più amati della storia attraverso 40 scatti.

Le foto sono firmate da nomi che con i Clash hanno un legame speciale, in particolare Adrian Boot che li immortalò nella loro sala prove “Rehearsal Rehearsals” negli Stables di Camden Town e poi ancora vicino alla Westway e anche in quel di Belfast. Ma ci sono anche immagini realizzate da Syd Shelton, autore del magnifico scatto in bianco e nero di Paul Simonon di fronte alla folla di Rock Against Racism (Victoria Park, 1978), e di Pennie Smith, che realizzò la leggendaria foto di copertina che campeggia su “London Calling”. Se vi trovate a passare da Bologna, da qui al 15 settembre, non mancate di fare un salto da Ono Arte Contemporanea.

TAG: Adrian Boot, bologna, Joe Strummer, London Calling, Mick Jones, Ono Arte Contemporanea, Paul Simonon, Pennie Smith, punk, Sandinista, Syd Shelton, The Clash
CAT: Bologna, Musica

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