Diego, prodigio e tormento
Non è un fotomontaggio. Nella foto sfocata, alla base del frontespizio del tempio di Nettuno, a Paestum, è lui, Diego. Diego Armando Maradona. Fare riferimento al Dio del calcio, considerato il luogo, è fin troppo semplice. Un santuario antico, tra i più importanti del mondo greco, ospita il “10” del Napoli, il “10” del mondo intero, il “10” dell’umanità sportiva e non, nell’occasione visto, appunto, come il nume tutelare dell’edificio religioso risalente alla metà del V sec. a.C. Che strana coincidenza, Maradona è morto nello stesso giorno in cui ci ha lasciato Fidel Castro, che amava e da cui era amato allo stesso modo. Ma, davvero si possono dire morte persone del genere? Diego, El Diez, El Pelusa, El Pibe de Oro, El Barillete cósmico, El Cebollita, La mano de Dios non può avere fine. Certo, che no! Le magie non si dissolvono, restano nella memoria di chi ha avuto modo di contemplarle e nelle repliche dei documenti filmati. Restano le impronte di colui che ha fatto somigliare uno sport come il calcio a un’arte autentica, che ha entusiasmato milioni di appassionati, che ha danzato con disinvoltura tra l’erba di un prato verde, inseguendo virtuosismi da regalare al gusto per le prelibatezze d’autore.
Il genio, nel football, può essere identificato solo con la sua persona. Il calcio non sarà musica e non sarà arte pittorica, ma Maradona, allo stesso modo di Mozart e Caravaggio rappresenta un’espressione che dà conto di un estro fuori dal comune, di una creatività che rivela il divino, di un talento che mette d’accordo tutti, nell’incanto dell’ammirazione di un gesto tecnico, che si tratti di una giocata ad effetto, una scala musicale, una pennellata di luce. Voilà, Diego era leggerezza in seno all’aria, e si può scrivere e parlare del suo modo di intendere il gioco del calcio senza spendere una sola parola inerente al linguaggio di questo sport. Non c’è bisogno di ricordare questa o quella prodezza per dare testimonianza di una grandezza che sa di prodigio e appartiene ai predestinati. Basta pronunciare il suo nome, e vengono in mente gli incantesimi che praticava sul campo. Napoli e i napoletani ben si assimilavano con la sua levatura di classe immensa e fantasia. E solo a vederlo toccare il pallone si cantava: “O mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona, eh, mammà, innamorato son”. Lui, Diego, portava tifosi di tutte le squadre allo stadio per offrire loro uno spettacolo rituale, puro e unico. Maradona, nella sua dimensione umana, avrà fatto del male a se stesso, ma da artista ha perpetuamente regalato bellezza, entusiasmo, allegria. E su una delle nostre splendide città d’Italia, Napoli, aleggerà per sempre il suo prodigio. I murales di Maradona e quello di San Gennaro, al di là della leggenda, restano arte genuina, che appartiene ai semplici, alla gente umile, al popolo fatto di carne e passione.
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