Il primo maggio del tifoso milanista (non parlo del Frosinone, o forse sì)
C’è un’ironia strana nel fatto che una faticosa rimonta casalinga del Milan sul Frosinone cada oggi, proprio oggi, primo Maggio del 2016. Non si celebra, in questo caso, la coincidenza con la Festa dei Lavoratori, ma con il Primo Maggio di 28 anni fa, 1988. C’entra sempre il Milan, appunto, ma era l’inizio di un’epopea gloriosa che noi tifosi troppo presto scordiamo – ingratitudine, vizio, infantilismo, semplice essenza dell’essere tifoso, e tifoso abituato benissimo: dite quel che volete – perché o si vince o niente. Per chi non sappia, non ricordi, o se ne freghi, quel primo Maggio del 1988 funzionava così.
Una giornata mitica che solo chi ha vissuto con legame affettivo – milanista, napolista, tertium non datur – può ricordare a fondo. Per gli altri, tutti, restano le immagini che ricordano un altro mondo. Un altro calcio: un giovanissimo Arrigo Sacchi, tesissimo, che dopo aver vinto la prima partita della vita, contro ogni aspettativa, si lascia andare a un caloroso: “una buona partita”, prima di riconoscere al San Paolo la grandezza del tifo vero, che si alza in piedi ad applaudire l’avversario che ha appena scucito lo scudetto di dosso dalle maglie dei suoi beniamini. Umberto Agnelli, vagamente rosicante, che dalla tribuna d’onore commenta una partita dalla qualità non eccelsa, ma con aplomb e sorriso sornione che si fanno perdonare. Bisteccone Galeazzi che fa domande stupide a Virdis – “tu come hai fatto a fare gol?” – e lui gli rispiega l’azione. Un magma di fotogrammi che fanno la nostra nostalgia, di gente che invecchi e, nel mio caso, di tifoso che non vince più da un po’.
Solo che la coincidenza finisce per imporre qualche riflessione, chiama le assonanze e le dissonanze ad essere espresse. Oggi, a San Siro, incassati due gol senza averne fatto uno dal Frosinone che negli anni in cui l’epopea del Milan moderno inizia si barcamenva tra la serie C1 e la serie C2, sono partite le contestazioni. Contro Galliani e, soprattutto, contro Silvio Berlusconi. Accese, cattive, arrabbiate: “andatevene!”. Poi la partita si è addirittura raddrizzata, e il Milan ha strappato un prezioso punto ai laziali, ma certo l’umore tra i (semivuoti) spalti non è cambiato. È un umore risalente, del resto, perché noi milanisti siamo abituati, ormai da tre decenni, che o si vince o non si noi. E adesso, di fronte al declino umano, politico, imprenditoriale del presidente siamo arrabbiati come i bambini cui si negano i dolci, o i drogati legati ai letti senza la roba. Amiamo questi colori, amiamo la maglia rossonera e per questo soffriamo: ci diciamo. Ma non è vero, amiamo noi stessi, e vincere è più bello di perdere, e per questo, così ben abituati, adesso speriamo nel salvatore cinese, e speriamo di ricominciare presto.
Meno male che ci sono le coincidenze del primo Maggio a ricordare, soprattutto ai più giovani tra noi, a quelli che non sanno che cos’è la serie b, che la vita e lo sport sono fatti così. Non si può vincere per sempre e sempre. E magari nel giorno in cui celebri l’inizio di una cavalcata vincente, tanti anni dopo ti troverai a grufolare nel fango. Vincere, insomma, non è un diritto: ma lavoro, fatica, fortuna, e se si è stati così fortunati da farlo come nessuno prima, bisognerebbe ricordarsene sempre, con un pizzico di gratitudine. Prima di invocare ardententemente, calorosamente, perfino virulentemente, un futuro di nuovi trionfi che cancelli le ultime vergogne. E ci mancherebbe altro.
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