Lettera ai cari fratelloni rossoneri (che non mi hanno voluto ascoltare)

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5 Ottobre 2015

Ai miei sventurati rossoneri, amici da una vita, non ho mai potuto chiedere ciò che a un vero tifoso non andrebbe mai chiesto: la perdita del sentimento. Perdendolo, come a me accadde ormai molti anni fa per vicende che Galliani conosce molto bene, avrebbero immediatamente riacquistato lucidità e al tempo stesso perso larghissimi strati di sofferenza, quella che oggi – ammesso che esista ancora la possibilità che la sofferenza rossonera si estenda – appare come un peso insostenbile nell’anima dell’appassionato milanista. Seguendomi, e da buoni tifosi giustamente non lo hanno fatto, si sarebbero parzialmente risparmiati i rovesci di questi anni, che definire torrenziali è appena poco o almeno li avrebbero vissuti con minore sbandamento.

Per esempio, si sarebbero resi conto per tempo che il talentuosissimo Pato era in realtà una motozappa (qui vi soccorra l’intelligenza di valutare il pacchetto completo del brasiliano: doti tecniche, attitudine a perdere testa e altro per la gnocca, nel caso nostro addirittura la splendida figliola del Presidente, muscoli di cristallo e un avvitamento non trascurabile sulle sue stesse inquietudini), non si sarebbero fatti intortare dall’elegantissimo e sensibilissimo Seedorf (peraltro il meno tragico di questo tempo) al quale, per sua naturale inclinazione al disprezzo per i meno dotati di lui, dunque quasi tutti, era pura pazzia affidare la gestione tecnico-umana di chicchessia, e sorvoliamo sulla sua attitudine cheap di farsi servire l’ovetto in camera, avrebbero vissuto come modesto incidente della storia il passaggio di Pippo Inzaghi, uno dei giocatori più scarsi del pianeta (“senza alcun talento”, lo ha definito opportunamente Arrigo Sacchi), ad allenatore della prima squadra (ciò che ha fatto per il Milan da giocatore è comunque apprezzabile ma sempre nel solco dei succhiaruote ai quali il gioco del calcio è perfettamente sconosciuto), ma soprattutto, e qui cascano mille asini che sino a un minuto fa volavano, non avrebbero gettato un solo nichelino di speranza nel fontanone rossonero, omaggiando come una divinità il muscolare sergente Mihajlovic, lui sì inadatto totalmente alla crescita culturale e sportiva di un gruppo (ciò che invece servirebbe oggi al Milan). Vi abbiamo risparmiato i mezzi fremiti provati per Leonardo, solido indossatore di abiti firmati, perchè è stato poi il medesimo a sottrarsi a un destino che non gli era mai appartenuto.

Ciò che si è visto ieri sera a San Siro ieri sera ovviamente non è accettabile, ma era del tutto prevedibile (non con quei margini, non con quelle proporzioni, ma era prevedibile) e semplicemente per una questione culturale. Molti tifosi, alla notizia della scelta del serbo per la panchina del Milan, avevano espresso una enorme soddisfazione, palpabile soddisfazione, perchè finalmente sarebbero cambiate le cose. Del resto, negli ultimi anni, il coro più amato dalla curva aveva escluso alla radice ogni coinvolgimento tecnico-sportivo per toccare le corde più evidenti e populiste: «Andate a lavorare», quel concetto sempreverde che avrebbe rappresentato una buona base di partenza anche per gli ultras medesimi. L’arrivo di un sergentone alla «Full Metal Jacket» sospingeva i deboli cuori rossoneri a credere che una ronda perenne fuori dalle stanze dei giocatori – come si faceva negli anni ’60 – , un controllo militare sugli stili di vita (non è un caso che Mihajlovic abbia preteso che Balotelli risiedesse nel suo stesso albergo) e soprattutto un’estetica muscolare ad uso pubblico (prendere per il collo i giocatori della Samp sul campo, fare scaldare a Genova il secondo portiere rossonero per mettere pressione a Diego Lopez), avrebbe alla fine partorito il bambinello tanto atteso e cioè un Milan degno di questo nome. Come è finita, lo abbiamo visto. E qualche tempo fa, prima di iniziare la tenzone, avevo messo i miei fratelloni rossoneri sull’avviso, travestendo da pregiudiziale fascista quella che mi pareva invece una evidente, solare, gigantesca questione tecnico-sportiva-culturale. Che in questi mesi, giusto per rimanere ai due allenatori di Milan e Napoli, aveva preso direzioni opposte. A Napoli si parlava di “riprendersi il sorriso”, ai più diffidenti veniva opposta la narrazione del recupero umano di Higuain, del suo divertimento in campo, anche con un enfasi francamente ingenua, ma insomma si restava nel pienissimo campo della psicologia umana applicata ai giocatori, mentre dall’altra parte i sorrisi andavano via via spegnendosi, sino a introdurre nelle vene rossonere la paura di giocare qualsiasi pallone, anche il più elementare.

Mette persino fatica dover segnalare i responsabili. Il geometra che probabilmente non è neanche geometra è vecchio e stanco. Soprattutto non è più moderno da diversi anni, la vecchiezza della società è lo specchio del suo amministratore delegato. Il quale, in questi ultimi anni, ha cristallizzato il Potere al punto che neppure la figliola prediletta dal caro papà è riuscita a farlo cacciare. E il povero Cav. non ne ha davvero più per decidere bene, cosa che ha fatto per molti anni.

Ps. questa letterina è per i miei fratelloni rossoneri (Jacopo Tondelli, Paolo Pagani, Ale da Rold, Andrea Vianello e tanti altri) che non mi hanno voluto giustamente ascoltare. Che il loro sentimento non si spenga mai (anche se io ho praticamente sempre ragione).

TAG: clarence seedorf, milan, pato, Sinisa Mihajlovic
CAT: calcio

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