L’economia sociale al tavolo dello Stato imprenditore

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20 Agosto 2020

Non solo autostrade e impianti industriali ma anche moda (Cornelliani), gelati (Sammontana) e addirittura monete complementari (Sardex). Complice la crisi economica e, a cascata, il ritorno di fiamma per l’intervento pubblico, il carnet di investimenti di Cassa Depositi e Prestiti diventa sempre più ricco e variegato, sia guardando agli ambiti e scala di investimento oltre che alle modalità. Si va infatti dalle centinaia di milioni per intervenire in grandi aziende nate dalla exit delle privatizzazioni fino alle poche decine per PMI campionesse (o ex) del “piccolo è bello” e startup ormai mature di innovazione sociale. Anche gli strumenti variano: comprendono sia il classicissimo prestito che l’apporto di capitale secondo la modalità, in realtà anch’essa sempre più in voga, del venture capital soprattutto se si tratta di imprenditoria innovativa (fondo innovazione). Una tendenza consistente quindi, non di breve periodo e legata alla contingenza della pandemia, che ora promette di innescare un ciclo di medio termine probabilmente assecondato anche da altri attori di natura e orientamento pubblico: dalle tecnostrutture nazionali come Invitalia, alle società finanziarie regionali, fino ai finanziatori europei (Bei). Un’evoluzione che peraltro non è solo un “affare italiano”. Basti pensare, a solo titolo di esempio, al progetto del presidente Macron di utilizzare l’equivalente francese di CDP per rilevare e rilanciare botteghe ed esercizi commerciali nelle principali città francesi allo scopo di frenare la desertificazione dei centri storici a seguito della battuta d’arresto del turismo.

In questo quadro come si colloca l’economia sociale? Asseconda il mood dello stato imprenditore oppure rappresenta l’eccezione alla (nuova) regola? Per rispondere si possono considerare tre distinte e recenti tendenze interne. La prima riguarda il ruolo sempre più rilevante svolto dai confidi di settore (principalmente Cooperfidi Italia) a supporto dei soggetti colpiti o resi più fragili dalla crisi sottoscrivendo, insieme allo Stato, garanzie sui crediti delle imprese dell’economia sociale e ora anche di altri attori nonprofit associativi e volontaristici avendo finalmente risolto il pasticcio normativo che escludeva questi ultimi dalle previsioni del decreto “cura Italia” (garanzie peraltro recentemente prorogate fino a fine anno). Un supporto importante rivolto alla parte “mediana” del settore alle prese con problematiche legate alla continuità dei processi produttivi e delle modalità di funzionamento ordinario rispetto alle quali non è da escludere, anzi forse da auspicare, che si innestino processi di vero e proprio change management. La seconda tendenza riguarda il ritorno sulla scena della finanza agevolata pubblica con un orientamento all’innovazione e che vede nel fondo Italia Economia Sociale gestito da Invitalia il principale strumento a livello nazionale con oltre 200 milioni di dotazione. La misura è oggetto di un importante intervento di redesign a livello di obiettivi, destinatari e modalità assegnazione delle risorse e quindi, a breve, dovrebbe essere più appetibile per una più vasta platea di soggetti costituiti non solo in forma cooperativa e neanche solo in forma societaria (quindi di nuovo associazioni e simili) cercando quindi di intercettare un potenziale d’imprenditoria sociale più vasto e diversificato. Infine la terza tendenza evidenzia il moltiplicarsi di fondi equity privati orientati all’impatto sociale costituiti grazie anche, va ricordato, a una consistente provvista di risorse pubbliche europee. Strumenti che spesso sono incorporati all’interno di ecosistemi di servizi non finanziari (formativi, consulenziali, di incubazione e accelerazione) che hanno l’obiettivo di favorire l’emersione di veicoli imprenditoriali ibridi a elevata intensità tecnologica che non semplicemente “digitalizzano” ma reinterpretano il purpose sociale.

Sulla base di queste (e probabilmente di altre) tendenze quali insegnamenti può trarre l’economia sociale in una fase in cui, piaccia o no, la sfera pubblica avrà, ancor più che nel passato, il pallino dello sviluppo considerando anche i consistenti fondi di recovery recentemente deliberati a livello comunitario? Il primo insegnamento è di ordine strategico e richiede di superare un approccio “esclusivo” allo sviluppo. Ora che questo comparto è stato riconosciuto (almeno in parte) come soggetto istituzionale grazie alla riforma del terzo settore dovrebbe evitare di chiudersi a riccio a difesa del suo nuovo schema normativo e aprirsi invece per contaminare positivamente altri ambiti. Emblematico in tal senso è il caso di Italia Economia Sociale che nella sua nuova formulazione prevederebbe di finanziare anche imprese culturali e creative. Una disposizione da guardare non come un’invasione di campo, ma come un’opportunità per allargare, finalmente, l’imprenditorialità sociale in campo culturale. Il secondo apprendimento riguarda le capacità di tipo operativo orientate a meglio riconoscere e valorizzare gli elementi intangibili che connotano la produzione e gli investimenti dell’economia sociale onde evitare una sua deriva “materialista” centrata cioè sui soli asset immobiliari che agli investitori ormai interessano sempre meno. In questo caso a emergere sono nuove tipologie di infrastrutture sociali (senior housing, hub comunitari, ecc.) caratterizzate da una catena del valore più legata a modelli di welfare comunitario in grado di scalare da sperimentazioni soft a componenti “core” dell’abitare. Un aspetto, quest’ultimo, rispetto al quale CDP gioca già un ruolo di grande rilievo attraverso i fondi dedicati al social housing. Infine il terzo apprendimento chiama in causa la governance perché soprattutto gli investimenti in equity potranno realisticamente essere gestiti non solo attraverso le qualifiche giuridiche del terzo settore e dell’impresa sociale che per questi investitori presentano alcuni limiti strutturali (tetto alla remunerazione del capitale e inalienabilità del patrimonio). Si tratterà quindi di imparare anche a “giocare fuori casa” ovvero all’interno di veicoli societari di capitali vocati comunque a finalità sociali e in grado di intercettare risorse diverse, magari provenienti, in quota parte, anche da investitori “dal basso” abilitati da piattaforme digitali dedicate. Soggetti dove il rendimento atteso e la necessaria “pazienza” in termini di tempo per vederlo realizzato rappresentano i criteri base per la creazione e la gestione.

In sintesi se quello che si sta aprendo è effettivamente un ciclo di sviluppo a trazione pubblica, all’economia sociale, e più in generale, ai soggetti intermediari dell’economia territoriale, spetterà un duplice ruolo. Da una parte migliorare la loro capacità distributiva per fare in modo che le risorse vengano “allocate” secondo criteri non di mera redistribuzione per il ripristino del sistema ma di investimento su iniziative e processi di cambiamento. D’altro canto a questi stessi soggetti è richiesto uno sforzo di “addomesticamento del Leviatano” affinché la trasformazione non si risolva solo in una mera (e rischiosa) sostituzione del pubblico con il privato, come l’espansione recente di CDP potrebbe far presagire. Il nuovo contratto sociale che si sta di fatto riscrivendo in questa particolare fase storica dovrebbe comprendere anche un capitolo dedicato a un principio – quello di sussidiarietà – che è proprio dell’economia sociale ma che ora potrebbe fare da guida a più ampi segmenti della società contribuendo così a riconfigurare la sfera pubblica in un’ottica di facilitazione e accompagnamento che finora si è realizzata solo in modo discontinuo.

TAG: cassa depositi e prestiti, economia sociale, stato imprenditore
CAT: CDP, economia civile

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