Noi vecchi romantici ci emozioniamo davanti alle imprese come quella di Nibali
Sarà che noi, vecchi romantici del pedale, ci emozioniamo quando qualcuno attacca da lontano. Quando quel qualcuno rischia anche il naufragio totale in classifica generale, perché i muscoli – alla diciannovesima tappa del Tour de France – sono duri come il marmo e di questo materiale ne conservano anche la pesantezza. Il pensiero che le gambe debbano spingere un ciclista sopra salite arcigne e in doppia cifra nel chilometraggio manderebbe al manicomio chiunque.
Sarà quindi che non ci emoziona troppo chi calcola ogni singola mossa guardando ossessivamente il cardiofrequenzimetro, che già solo a scrivere la parola ‘cardiofrequenzimetro’ ti passa la voglia di vedere una tappa del Tour. Perché va bene tutta la tecnologia del mondo, ma il ciclismo ti fa sobbalzare dalla sedia quando vedi che il corridore scatta con un solo obiettivo: vincere senza calcoli. Senza cardiofrequenzimetri o misuratori di watt per capire se spingere un po’ di più o un po’ di meno. Sentendo solo le sensazioni delle gambe, dure come marmo, ma piene di tenacia.
Sarà che Vincenzo Nibali sembrava alla deriva dopo dieci tappe del Tour de France, tanto che stava subentrando la rassegnazione di una corsa da comprimario, al ‘gancio’, lontano dai marziani alla Froome o alla Quintana. E tanto che il kazako Aleksandr Vinokourov, capo dell’Astana, aveva eletto il buon gregario Jakob Fuglsang come capitano, mancando di rispetto al vincitore della scorsa edizione.
Invece il ciclismo racconta la sofferenza di un 30enne siciliano che nel momento peggiore della sua carriera regala un successo, che è forse il migliore della carriera. Anzi tolgo il forse: è il più bello. Vincere al Tour de France con uno scatto a tre Gran premi dalla montagna dall’arrivo è ormai roba da ‘cacciatori di tappe’, da uomini che con coraggio – alla Pierre Rolland – cercano l’impresa, per scrivere il loro nome nella storia del Tour de France, e quindi del ciclismo.
Ma un ciclista che punta alla classifica generale non scatta più a quasi 60 km dal traguardo. Lo si faceva un tempo, nell’epoca leggendaria dei ciclisti che correvano con il tubolare addosso per riparare la ruota in caso di foratura. Lo faceva uno che si chiamava Marco Pantani, che probabilmente aveva tanti difetti, ma il coraggio e la fantasia non gli difettavano. Lo fa ancora un certo Alberto Contador, non quello del Tour in corso: ora è già tanto se riesce a tenere il passo degli altri big dopo le fatiche del Giro d’Italia.
Vincenzo Nibali, in questo 24 luglio 2015, è entrato nel cuore degli sportivi italiani, forse più del 2014. Ha saputo emozionare, ha saputo farti saltare dalla sedia, stringere i polsi e sussurrare “vai, Vincenzo, vai…”, come se ti stesse ascoltando. E ha saputo scattare al momento giusto, quando Froome ha messo piede a terra per un piccolo problema, con tanti saluti al buonismo che vuole l’ossequioso rispetto verso la maglia gialla vittima di un guasto. Il ciclismo, la bicicletta, è sudore, fatica. E anche fortuna.
Ma il ciclismo è soprattutto l’impresa di un campione umano, che alla fine ti fa urlare “evvai”, quando alza il pugno per dire: “Sì, ho vinto, cari detrattori”. Con un attacco di come se ne vedono sempre meno e facendo emozionare noi, vecchi romantici.
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