Michael Fassbender tra Macbeth e Harry Potter

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21 Gennaio 2016

Dunque sono andato al cinema. Non mi capitava da tempo e, per non sentirmi in colpa rispetto al teatro, ho scelto di vedere Macbeth: così c’era comunque aria di “casa”. Macbeth: quello con Fassbender e Marion Cotillard, con la regia dell’australiano Justin Kurzel, di cui si è parlato già tanto.

Quando vado a vedere il teatro sul “grande schermo”, cerco – indubbiamente – qualcosa che mi stupisca, che mi sorprenda rispetto a quanto posso vedere sulle normali assi di un palcoscenico. A volte capita: la sorpresa arrivò addirittura con il rutilante Romeo e Giulietta di Lurhmann, o con l’orrido Shakespeare in love, che per quanto insopportabile qualche slancio curioso l’aveva. Allora, animato dai ricordi di Akira Kurosawa, di Orson Welles o di Roman Polanski, accompagnato da una amica bravissima attrice, sono andato al cinema Reale, a Trastevere. Nella grande sala eravamo in 6.

Ho pensato che fossero tutti alla proiezione accanto, dove troneggiava Checco Zalone. E così, inorgoglito dalla scelta in controtendenza, mi sono preparato a gustarmi la sanguinolente ascesa del Barone e della Baronessa in terra di Scozia.

Tronfio di mega-recensioni, di iperpubblicità ovunque con il faccione crudo dell’attore, di cartelloni splatter e terrorizzanti, il Macbeth di Kurzel è un bel mix di BraveheartIl nome della rosa, Harry Potter e MadMax: un immaginario medioevale manierato e cupo, impastato di croci e spade, di magie e misteri, truculento eppure lindo, con tutti quei mirabolanti tagli di luce e quegli schizzetti di fango giusti giusti.

Per affrontare la tragedia, l’australiano Kurzel e i suoi sceneggiatori impongono un antefatto (ché Shakespeare ne aveva bisogno): vediamo, difatti, la coppia amata cremare un bambinello prematuramente morto, così facendo piazza pulita su ogni dubbio interpretativo a proposito della vita sessuale dei Macbeth, notoriamente oggetto di infinte dispute teoriche e critiche.

Michael Fassbender in Macbeth

Michael Fassbender in Macbeth

Fassbender, intanto, con la sua barba hipster, dà al barone di Glamis, che sarà Cawdor e poi re, la verve di un blackbloc: si avventa nella truce battaglia come un forsennato. Urla e uccide, immortalato in slowmotion degni della moviolona sul campo.

Dettagli macabri: barbe che gocciolano liquidi biologici, ferite aperte, macelleria (sociale e culturale). Insomma, estetismo puro, ancorché gotico: ombre e nebbie, sudore e saliva, sangue e arena.

Durante la carneficina, talmente neorealista da sembrare un videogame, abbiamo tempo di affezionarci ad alcuni fantoccini mandati allo sbaraglio: i “ragazzi del ’99” versione guerra civile scozzese giungono al campo con visi che sembrano presi da Ken Loach.

Vinta la battaglia, turbati gli animi dalla prima apparizione delle streghe, ecco arrivare in scena lei, Lady Macbeth, che ha le fattezze meravigliose di Marillon Cotillard, tutta sospiri, occhioni lacrimosi e sussulti. La baronessa ha un brivido da orgasmo a ogni parola della celebre lettera con cui il marito prefigura la fulgida carriera: arriviste, ’ste donne, vien da pensare. Tanto che quando – una volta tornato a casa e tolta la corazza da vero eroe – Macbeth tentenna e vuole ritrarsi, la mirabile gattamorta si impunta: hai promesso! Così da sgombrare ogni dubbio sul fatto che questa sia la tragedia dell’ambizione.

Michael Fassbender e Marillon Cotillard

Michael Fassbender e Marillon Cotillard

Alternando statici campi lunghi e primi piani – un po’ come dire palla lunga e pedalare – la storia si dipana lenta, e pure un po’ noiosa. Scenari eclatanti – montagne e mare mosso, cime innevate e piogge insistenti – degni di una riuscita puntata di Geo&Geo, fanno da sfondo alle pose statuarie di Fassbender, che esce dalle acque a torso nudo lasciando senza fiato le tre donne in sala.

Ma non basta: il nerboruto Macbeth, che si arrovella sul proprio destino, non ha niente di meglio che lanciarsi a cavallo, ancora in camicia da notte, alla ricerca di quelle streghe che sembrano uscite pari pari da un Dürer qualsiasi: con cicatrici sul volto da Spazio1999, le algide donne (tre più una bambina) rinnovano le loro rarefatte previsioni. Poi Ecate, trasformato in un’apparizione di morti viventi che nemmeno Romero, conferma: “nessun uomo nato da donna potrà uccidere Macbeth”.

Vabbè, poi la storia la sappiamo.

La follia della Lady è un monologo in lacrime, nella cappella del paesello natio, in cui appare anche il bambinello morto all’inizio ma ora segnato da una specie di morbillo (o è fango? O sarà la cenere del rogo iniziale?). Quello bellissimo di Macbeth (“spegniti breve candela”) si risolve in un abbraccio di lui al cadaverino di lei, che ritroviamo morta sul letto di casa.

Questo Shakespeare: tutto qui? Tutto il dilemma umano, universale e eterno, del capire fino a che punto un uomo può spingersi pur di “arrivare”, si banalizza in un Macbeth affrettato e superficiale, in cui le lacrime (prima o poi tutti piangono in questo film) dovrebbero essere il contraltare morale alla sete di potere. Bastano?

Il film non manca però, va detto, di soluzioni interessanti. Ad esempio, la celebre avanzata della foresta di Birnam è risolta sul piano simbolico, con gli assedianti guidati da Malcom e MacDuff che danno fuoco al bosco e il fumo e la cenere degli alberi si riversa sul castello di Macbeth. Furbi, eh?

Il testo è quello di Shakespeare, piuttosto tagliato (manca, per dirne una, la scena del portiere), ma fedele.Il guaio è il doppiaggio: ebbene sì, al Reale il film era doppiato. Questo, si sa, è uno scandalo del cinema italiano, e romano in particolare: sono pochissimi i cinema in cui si può sentire un attore recitare con la propria voce.

E qui Fassbender ha un mono-tono, talmente sempre “caldo e suadente” da sembrare la pubblicità di una macchina di alta cilindrata. Un tono “profondo” assolutamente falso, vuoto. Si è sicuramente impegnato Francesco Prando a dare corde vocali al monolitico volto di Michael, ma il risultato è sconfortante per piattezza, superficialità, banalità di suono (il bell’italiano parlato dai doppiatori…). Stessa cosa è per la vocina tenerina di Stella Musy, lacrimevole Lady Macbeth. Insomma, una barbarie che affligge ulteriormente il già pesante film.

E la sopresa, direte voi? No, niente. Kurzel non aggiunge e non sposta, semmai fa ripensare, con nostalgia, alle soluzioni create, in scena, da Eimuntas Nekrosius per lo stesso testo. Ma si sa, Shakespeare è uno sceneggiatore piuttosto apprezzato a Hollywood: non mancheranno altri remake in futuro.

 

 

TAG: Akira Kurosawa, Braveheart, Harry Potter, Il nome della rosa, Justin Kurzel, Macbeth, Marillon Cotillard, Michal Fassbender, Orson Welles
CAT: Cinema, Teatro

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