
Milano
Il modello Milano non esiste (ancora)
Il “modello Milano” non esiste: non è originale né replicabile, ma l’adattamento italiano alle dinamiche delle metropoli globali. Per diventare davvero un modello, Milano deve tornare a governare lo sviluppo con visione, equità e coraggio politico.
Ho letto i commenti alla vicenda Milano con non poca, né inaspettata, delusione, derivante dalla constatazione che con pochissime eccezioni, il dibattito pubblico è ormai una costante riedizione dell’esperimento di Ivan Pavlov sui riflessi condizionati. Tutti a guardare il dito, ok il ditone, dell’inchiesta giudiziaria, pochissimi la luna del fatto politico che a quelle indagini preesiste ed è sotteso. Anche dove si è cercato di parlare di politica, o almeno di non ridurre tutto a giustizialisti vs garantisti, nulla di nuovo sotto al sole: la destra ringhia “dimissioni”, il PD difende tutto, i riformisti lamentano che non si può più fare niente, la sinistra radicale invoca stop a ogni gru e nazionalizzazioni dei grattacieli. Tutto visto, scontato, prevedibile, a parte la reazione di Giorgia Meloni, che forse spiega perché lei è lì e gli altri a smanettare nelle camere dell’eco delle proprie bolle per i propri tifosi. Una noia mortale, che mi fa dire che non voterei nessuno dei sopraddetti se, cosa non certa, sarò ancora cittadino milanese nel 2027.
Al di là delle mie ininteressanti noie, la lettura di questi giorni si è focalizzata su un concetto che non mi convince: il modello Milano. Secondo la Treccani, modello è “qualsiasi cosa fatta, o proposta, o assunta per servire come esemplare da riprodurre, da imitare, da tener presente per conformare ad esso altre cose”, qualcosa da imitare proprio perché originale. Ma nella crescita di Milano post Expo non c’é stato proprio nulla di particolarmente originale, né tantomeno che potesse essere imitato, almeno a livello domestico.
Dopo il 2015, Milano si è iscritta, unica italiana, al campionato delle metropoli globali, un po’ come quando l’Italia è stata ammessa al 6 Nazioni di Rugby, entrando nell’élite. Nessun’altra città italiana, nemmeno la Capitale amministrativa, poteva – e per molto tempo potrà – unirsi a questo campionato affascinante, ma molto complesso e competitivo. Per questo, a differenza di quanto accade per i modelli, non c’è granché che si possa imitare, soprattutto non c’è nessuno che possa imitarlo.
A differenza poi dei modelli, Milano rappresenta appunto qualcosa di non particolarmente originale, dacché l’iscrizione al campionato delle metropoli globale comporta l’adesione a caratteristiche e problemi omogenei, che la sociologa olandese Saskia Sassen ha riassunto alla perfezione nel suo ormai classico “La città globale”: le metropoli intercettano i flussi dell’economia immateriale, concentrano le risorse finanziarie e umane e dialogano tra loro al di là dei confini dello stato nazionale. Sempre a livello globale, la sinistra è la parte politica che, non senza contraddizioni, meglio interpreta i valori della classe creativa e della borghesia urbana che le metropoli abita e anima, e per questo da Londra a Parigi, da Amsterdam a Budapest, da New York a Toronto, a Milano, le maggioranze di governo fanno parte della medesima internazionale progressista dello “sviluppo educato”.
Similarmente poi, questi amministratori si confrontano con le pressioni di una campagna che va a destra e combatte il cosmopolitismo delle metropoli (che dialogano meglio tra loro, come Milano ha più cose da dire a Parigi che a Modena), gli appetiti mai sazi del mattone, che sogna sempre di essere a Dubai o in qualche posto dove puoi solo cementificare senza tante menate, l’esercizio di stare in equilibrio su quella sottile linea tra conservazione dell’identità e modernizzazione, che necessariamente è gentrificazione, per cui vorremmo rimanesse il bar di quartiere, ma magari con un caffè un po’ più special. Amministrare una metropoli è come giocare a Simcity: sistemi un pezzo e se ne rompe un altro, investi nell’università e si arrabbiano gli abitanti della periferia, anche quando va tutto bene poi può arrivare un tifone. È un gioco molto complicato, in cui il q.b. non è mai chiaro e un sacco di persone giudicano costantemente il tuo operato, ma se si ha voluto la bicicletta tocca farlo bene.
Nell’applicazione italiana del modello, che ripeto non è originale, né replicabile altrove nello Stivale, la politica debole ha in questi ultimi anni ceduto alle pressioni della finanza mattonara rapace, e a quel pulviscolo di sciure e sciuri che ha approfittato del boom del mattone per estrarre rendita dalla casa di nonna morta e a cui i prezzi fuori controllo andavano benissimo per affittare a canoni osceni. Sono stati anche loro i veri beneficiari senza alcuno sforzo dell’inserimento di Milano nel campionato delle metropoli globali, massa di consenso che nessuno ha ritenuto veramente conveniente fronteggiare e che difficilmente qualcuno che abbia da perdere fronteggerà seriamente.
Rimettere a dritta una barra che pende troppo dal lato della privatizzazione dei benefici del boom di Milano, cosa verso la quale gran parte della maggioranza che sostiene Sala e soprattutto della giunta non ha nulla in contrario, ma che è resa necessaria da crescenti malumori e da molta agitazione in Porta Vittoria, presuppone necessariamente un’interruzione di questo stato di cose e nuovi equilibri, ovviamente, nel senso di una maggiore attenzione alle conseguenze a medio-lungo termine dello sviluppo, in primis la sostenibilità del vivere a Milano per chi non è ricco. Resta da capire come, e qui le possibilità sono essenzialmente due.
La prima, tanto fuori luogo quanto pienamente presente nel dibattito e propugnata da fior di intellettuali e osservatori delle dinamiche urbane, è quella di smontare il giocattolo e sterzare decisamente verso un modello di sviluppo in cui il pubblico è demiurgo assoluto, mandando una lettera alle metropoli del mondo e ritirandosi onorevolmente dalla competizione. Auguri.
La seconda, più sensata e realistica – non necessariamente più semplice – è quella di svegliarsi e tornare a governare secondo il manuale delle città globali, magari facendo anche un congruo rimpasto di giunta perché, fatta salva l’adamantina onestà di tutti e tutte, alcuni assessori sono semplicemente unfit a un ruolo di governo che vada oltre l’accompagnamento al Mercato.
Per fare cosa? Ne dico tre: 1. uscire dalla modalità attrazione di investimenti dell’era pre-Expo verso una gestione consapevole di Milano come bene raro e per il quale dunque il Mercato deve pagare molto di più, ossia almeno il necessario per togliere le pezze dal sedere al Comune e consentirgli di amministrare una città senza buche, pavé sconnesso, piscine chiuse e mezzi pubblici razionati. Bisogna fare in fretta perché gli occhi famelici dei fondi stanno già guardando altrove, ma non tutto credo sia perduto; 2. dare vita ad un grande progetto che non sia solo hardware, cemento da colare, ma abbia una componente software seria e attrattiva. In altre parole, andrebbe ribaltato il paradigma per cui si fa “rigenerazione urbana” (soldi) e poi si capisce cosa fare, ragionando invece sul portare a Milano o creare qui qualcosa di grosso, intelligente, orientato al futuro, che attiri giovani e ricercatori, non inutili milionari in cerca di sconti fiscali. 3. superare il provincialismo nefasto per cui Milano è davvero solo quel cerchietto protetto dall’occhio elettronico dell’area C, osceno monumento al privilegio dei soldi con delle piccole mutande verdi a coprire malamente le pudenda. Quando il Sindaco, che è anche Presidente dell’ectoplasmica area metropolitana, a proposito di San Siro disse che non era concepibile che il Milan giocasse “fuori Milano” perché voleva andare a San Donato (medesima distanza calcolata dal centro, 11 km, dello stadio dell’Arsenal a Londra e del Real a Madrid), ho capito che tutto questo bordello nasce anche dall’aver ristretto Milano e le sue ambizioni globali in un ridicolo fazzoletto di 181 kmq, mentre compete con giganti e dovrebbe immaginare – non da sola, ovvio – politiche integrate in un’area tra Torino, Venezia e Bologna, abbassando così la pressione immobiliare senza l’attuale sensazione di espulsione dalle mura cittadine, per giunta con mezzi pubblici inadeguati.
Se farà queste cose, non tutte e subito, ma indicando la strada e preparando il futuro (con qualche scossone immediato), Sala e Milano si lasceranno questo brutto luglio alle spalle e forse lasceranno davvero in eredità qualcosa di ancor più ambizioso del partecipare al campionato delle metropoli globali: diventare un modello, a cui anche gli altri si possano ispirare. Sino a quel momento, che non è detto si vedrà, meglio volare basso e fare i compiti, che già sarebbe qualcosa.
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