Venezia si prepara tra le polemiche al matrimonio di Jeff Bezos

Venezia

Jeff Bezos, cittadino onorario di Venezia?

Venezia è da sempre simbolo di commercio, lusso e arte finanziata dai profitti. Bezos incarna, pur con scarso stile, lo spirito mercantile della Serenissima

18 Giugno 2025

Ai comitati No Space for Bezos che, tra uno striscione indignato e un post su Instagram, accusano Venezia di essersi venduta all’ennesimo miliardario globale, va ricordata una cosa semplice: Venezia è nata in vendita. Non nel senso volgare del termine, ma in quello glorioso e fondativo: la città è stata per diversi secoli un laboratorio sull’intreccio tra scambi, profitto e rappresentazione della ricchezza.

Venezia non è Christiania, pittoresco quartiere danese dove si coltiva l’illusione che basti qualche simpatico murales e un paio di biscotti alla cannabis per sottrarsi alla logica capitalista. Venezia è la città che, se al capitalismo non ha dato i natali, gli ha impartito il battesimo con tanto di broccato d’oro e ritratto di Giovanni Bellini.
Se vogliamo capire dove tutto è cominciato, bisogna partire da qui, secondo Braudel. Venezia è dove il mercato non è più soltanto un luogo fisico ma una mentalità, dove il commercio diventa sistema e il denaro circola non come mezzo ma come fine. Qui gli arsenali diventano industrie, le assicurazioni marittime imprese. Ma soprattutto: Venezia è la città che meglio di altre dai profitti ha tratto arte. Costruisce e palazzi e chiese, commissiona a Bellini, Giorgione, Tiziano, Veronese, Tintoretto opere che sono vertebre dell’arte occidentale.
Piazza San Marco è la confutazione plastica dell’idea cara ai liberali citazionisti di titoli celebri secondo cui il capitalismo ha bisogno dell’etica protestante e della sobrietà per fiorire; la prova che il consumo vistoso e lo sfarzo non lo hanno inventato gli arricchiti americani.
Nel capitalismo della Serenissima l’ambizione personale si innestava in un’architettura politica e culturale comune. Né potere né il commercio erano lasciati all’arbitrio di un singolo, erano bilanciati da istituzioni, rituali e un forte senso della forma. Il capitale privato contribuiva alla ricchezza pubblica, le stesse opere erano commissionate dalla Repubblica, dalle Scuole e dalle Confraternite non solo dai singoli.

Il capitalismo contemporaneo, al contrario, spesso si esprime in forme solitarie e slegate, e la ricchezza tende a sottrarsi ai luoghi invece che abitarli e arricchirli. Eppure, per quanto diverso nei codici, anche questo modello è figlio di quello spirito mercantile.
Quello stesso spirito che portava i patrizi a sfidare tempeste e pirati per arrivare in Oriente, comprare pepe e seta e rivendere il tutto a Rialto con un margine da far impallidire un fondo speculativo.
Sicché quando Jeff Bezos – l’uomo che ha trasformato le nostre librerie in un algoritmo e i nostri portafogli in abbonamenti Prime – decide di sposarsi a Venezia, con appena 250 invitati, ci si potrebbe risparmiare l’indignazione senza appello.
Cos’è stata la Serenissima, se non l’antenata certo severa, forse più ricca e certamente più chic di Amazon?
Amazon ha rivoluzionato il commercio, con margini al contrario risicatissimi, e con esso il nostro modo di vivere. In un secolo in cui gli economisti si sono intestarditi a misurare la produzione, Bezos ha ribadito che senza commercio non c’è ricchezza. E il commercio – ce lo dice ancora Braudel – è la vera forza dei veneziani: quella capacità di creare reti, non solo rotte; di organizzare, più che di produrre.
Senza dimenticare che la rivoluzione di Bezos è iniziata con il vendere libri. E un altro che ha rivoluzionato il mondo dei libri è il veneziano Aldo Manuzio.

Ogni volta che leggete un manuale o un tascabile oppure usate il corsivo riservategli un pensiero.
Jeff non ha la grazia di un doge e ha eluso tasse e spremuto dipendenti. Ma nemmeno i soldi dei Guggenheim – quelli con cui Peggy ha collezionato tutta l’avanguardia novecentesca ora appesa sulle pareti della sua casa sul Canal Grande – erano esenti da qualche ombra. Né lo sono quelli degli Arnault, oggi proprietari di Palazzo Grassi e Punta della Dogana, che hanno fatto del lusso un impero e delle fondamenta veneziane il molo per le loro collezioni. Né quelli dei molti che pagano migliaia di euro a notte in un albergo di San Marco o una cena all’Harry’s bar dove Ernest Hemingway, visti i prezzi, poteva permettersi solo Martini.
Se Bezos avesse anche solo un quarto dell’eccentricità di Peggy o della eleganza degli Arnault, la cittadinanza onoraria si potrebbe davvero offrirgliela, in quanto erede di quell’epopea mercantile.
Ma Jeff, da quando ha lasciato Amazon, pare impegnato a incarnare un’ideale di tamarraggine inarrivabile quanto la sua ricchezza. In coppia con la fidanzata sembra in ogni occasione appena uscito dal provino per “Coccia di Morto: il musical”.
E allora questa cittadinanza forse non è proprio il caso di offrirgliela. Perché passi il capitalismo, anche quello sfrontato; ma almeno con un po’ di stile. Perché a Venezia, il denaro si ama solo quando è intabarrato con tessuti Fortuny, quando rende omaggio a questa che è più di una città, è un’economia – mondo, con l’accento su mondo, per parafrasare Braudel.

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