L’altra Brexit: sette conseguenze su clima ed energia

6 Luglio 2016

I britannici hanno deciso: con il referendum consultivo del 24 giugno scorso, i cittadini hanno chiesto al governo del Regno Unito di separarsi dall’Unione Europea. Mentre infervorano i dibattiti sulle motivazioni che hanno spinto a votare “leave”, è tempo di iniziare a valutare le conseguenze di questa decisione e che cosa ci aspetta il futuro; in particolare rispetto ai termini del divorzio in corso. Ecco alcune riflessioni in merito alle probabili conseguenze della Brexit in materia di energia e cambiamenti climatici.

1.       Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici

Sembra già parlare di un’era passata, eppure fino a solo sei mesi fa la Gran Bretagna era uno degli attori principali, in sede europea, nella negoziazione e definizione dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Infatti, l’Unione Europea agisce e negozia con voce unica in occasione dei negoziati sul clima, come parte della Convenzione UNFCCC. Christiana Figueres, Segretaria Generale uscente dell’UNFCCC e una delle protagoniste principali del negoziato, aveva già avvertito pochi giorni prima del referendum che “dal punto di vista dell’Accordo di Parigi, la Gran Bretagna è parte dell’Unione Europea, e perciò se questo cambiasse ci sarebbe bisogno di una nuova calibrazione”: insomma, gli impegni sottoscritti dall’Europa, tra cui il taglio delle emissioni del 40% entro il 2030, dovranno essere, probabilmente, rimodulati. Oppure ci potrebbe essere una conferma dell’impegno del Regno Unito, come un membro esterno – almeno per l’obiettivo già assunto, fino al 2030.

In ogni caso si pongono due problematiche: la prima è un potenziale ritardo nella ratifica dell’Accordo di Parigi a livello europeo. L’Europa, infatti, potrà ratificare l’accordo solo dopo che ciascun membro dell’Unione avrà completato il processo di ratifica nazionale. Quindi, è molto probabile che, nell’incertezza attuale, il processo possa ritardare, sia da parte britannica che da altri Stati che attendono di capire come sarà attuata la rimodulazione degli impegni.

L’altra, ancor più importante, potrebbe essere una porta aperta a una confusione riguardo agli impegni dell’accordo, che potrebbe essere utilizzata dagli oppositori degli impegni per il clima: come Donald Trump, in caso di una sua vittoria negli Stati Uniti. Trump ha già annunciato che farà di tutto per ritirarsi dall’Accordo, se eletto; incertezze nell’implementazione o ritardi nella ratifica potrebbero facilitargli il lavoro.

2.       Impegni per il clima

“Il risultato del referendum è un passo indietro importante rispetto al tipo di collaborazione di cui abbiamo bisogno per risolvere questioni ambientali come i cambiamenti climatici. – ha dichiarato Jonathan Grant, direttore sostenibilità presso PriceWaterhouseCoopers al The Guardian- Il Governo britannico è stato un leader dell’azione per il clima a livello nazionale, europeo e anche a Parigi [per i negoziati sull’Accordo di Parigi,ndr]. La leadership è a rischio, con molti sostenitori della Brexit che si oppongono a politiche per il clima come gli standard di efficienza energetica.”

La Gran Bretagna, oltre agli impegni internazionali, ha una sua legislazione interna in merito ai tagli delle emissioni di CO2 e altri gas climalteranti, introdotta nel 2008 dall’allora primo ministro Gordon Brown attraverso il Climate Change Act, che prevede di arrivare al -80% delle emissioni entro il 2050. Quindi, in teoria, l’impegno britannico per il clima dovrebbe rimanere invariato. Ma le implicazioni della Brexit sono connesse anche a eventuali nuove politiche ambientali che potrebbero essere decise dal successore di Cameron. E’ già evidente che tra le argomentazioni usate dai sostenitori della Brexit, assieme all’immigrazione, c’è l’opposizione alle regolamentazioni europee: una parte di queste riguardano proprio le materie clima, energia, ambiente.

Non solo: alcuni dei supporter della Brexit sono anche negazionisti climatici. Tra questi, Lord Lawson, uno dei leader della campagna per il Leave, è anche il fondatore della Global Warming Policy Foundation, un thinktank negazionista. E anche lo stesso Trump supporta sia la Brexit che lo stralcio degli impegni per il clima.

Una voce di richiesta di rinnovati impegni da parte del governo britannico arriva da John Sauven, direttore esecutivo di Greenpeace UK, che ha dichiarato al The Guardian: “La Gran Bretagna non sta lasciando la comunità internazionale, né sta lasciando il Pianeta. L’Accordo di Parigi è ancora vitale in ogni suo punto come lo era ieri. Rispettare l’Accordo è ancora più importante adesso: stiamo per negoziare nuovi accordi commerciali e l’ultima cosa che ci possiamo permettere è di rompere gli impegni che abbiamo fatto solo sei mesi fa”.

3.       Bolletta dell’energia e sicurezza energetica britannica

L’argomento dei costi della bolletta energetica è stato usato da entrambi i fronti di campagna referendaria. Amber Rudd, Ministra per l’Energia e i Cambiamenti Climatici della Gran Bretagna, aveva dichiarato prima del referendum che un voto favorevole alla Brexit avrebbe portato a un aumento della bolletta energetica di 500 milioni di sterline per i cittadini. “Se lasciamo il Mercato Interno Europeo dell’Energia, avremo uno shock del mercato equivalente a un aumento di 1,5 milioni di sterline al giorno”. Secondo la Ministra, queste affermazioni sono supportate da una ricerca commissionata dal National Grid e gran parte di questo aumento sarebbe collegabile a una perdita di potere negoziale del Regno Unito: “abbiamo visto come Paesi come la Russia di Putin hanno usato le loro riserve di gas come strumento di politica estera, anche minacciando di tagliare i rifornimenti o aumentando drasticamente i prezzi”, ha dichiarato. “Non possiamo permettere che la nostra sicurezza energetica sia presa in ostaggio. In un blocco di 500 milioni di persone, abbiamo il potere di forzare la mano a Putin. Possiamo coordinare la risposta a una crisi. Possiamo diminuire il prezzo delle importazioni, come successo recentemente nell’Europa dell’est. Quando parliamo del gas russo, uniti vinciamo, divisi falliamo”.

Di avviso diametralmente opposto Matthew Elliott, a capo della campagna Vote Leave, che le aveva risposto: “le dichiarazioni assurde di Amber Rudd non sono supportate dalle ricerche che cita. E’ un tentativo disperato di vincere il referendum. Il mercato europeo rende le nostre bollette energetiche e ci costa 350 milioni a settimana. Se vogliamo bollette più economiche, meno interferenze della commissione e la possibilità di spendere i nostri soldi sulle nostre priorità, allora l’opzione più sicura è votare “leave”.”

La cifra dei costi imputati all’Unione Europea, di 350 milioni, è, però, sicuramente e nettamente sbagliata (un articolo su Guardian ha ricostruito i calcoli), il risultato al momento è incerto e dipenderà dai futuri accordi con l’Unione Europea.

4.       Politiche europee su clima ed energia

Dopo la decisione di uscita dall’Unione Europea, la Gran Bretagna dovrà negoziare gli accordi del “divorzio”, che contengano un regime transitorio e che regoli poi le future relazioni con l’Unione: il Regno Unito potrebbe ancora far parte dell’European Free Trade Area, come la Svizzera e la Norvegia. La Gran Bretagna potrebbe quindi fare ancora parte ancora del mercato del gas e dell’energia attraverso un meccanismo ad hoc.

Allo stesso modo, anche se la regolamentazione sull’Emission Trading è regolamentata da una direttiva europea, non è obbligatorio essere un membro dell’Unione Europea per partecipare a questo schema: basterebbe un trattato bilaterale per estendere la vita dell’EU ETS anche oltre la fine della membership europea. Il punto, però, non sarà tanto se sia legalmente possibile continuare a rimanere entro alcune direttive europee, quanto se il nuovo governo vorrà farlo. Certo, la Gran Bretagna potrebbe decidere di disciplinare autonomamente molte delle materie attualmente regolamentate a livello UE: ad esempio, in merito alla direttiva sulle emissioni industriali. Oppure ancora rispetto alla direttiva sugli edifici ad energia quasi-zero.

Diverso il discorso sulle politiche in corso di definizione: la Gran Bretagna ha perso la sua influenza su importanti questioni, come la riforma dell’Emission Trading Europeo che dovrebbe essere definita entro il 2017 e le regole di rendicontazione delle attività da foreste. Dal punto di vista europeo, anche l’Unione Europea perde: diminuisce in potere negoziale e anche in convinzione. Senza Gran Bretagna viene a mancare un alleato importante, spesso sponda verso gli Stati Uniti.

5.       Energia rinnovabile

Tra le politiche energetiche in cui il Regno Unito potrebbe cambiare il passo, c’è la quota di crescita relativa alle energie da fonte rinnovabile. In base alla direttiva europea 20-20-20, la Gran Bretagna dovrebbe arrivare al 15% di energia pulita entro il 2020: quota che ha sollevato malumori, in quanto il governo avrebbe preferito più libertà di azione sulle modalità per raggiungere i tagli delle emissioni di CO2 promessi; soddisfacendoli, in larga misura, grazie al cambiamento del mix energetico a favore del gas e a discapito del carbone. Per raggiungere l’obiettivo, la quota di rinnovabili per l’energia elettrica (ovvero quella della rete elettrica) dovrebbe arrivare a circa il 30%, mentre per l’energia termica (come il riscaldamento) dovrebbe raggiungere circa il 12%. Per il settore dei trasporti vi è inoltre il target minimo del 10% da rinnovabili. Secondo molti analisti, la Gran Bretagna non sarebbe in linea con alcuni target; adesso potrebbe non rispettare questi impegni. Inoltre, un altro punto interrogativo nasce in merito all’accordo di Burden Sharing, ovvero alla suddivisione degli impegni in materia di energia rinnovabile ed efficienza energetica al 2030: infatti, a livello europeo gli obiettivi sono già stati decisi, ma manca la ripartizione di questi obiettivi tra gli Stati. Al momento, però, non sappiamo se la Gran Bretagna deciderà se restare all’interno di questa regolamentazione, per cui lo scenario è ancora incerto.

Ed è proprio l’incertezza il fattore che maggiormente potrebbe incidere sulla quota di rinnovabili è un altro e legato al mondo imprenditoriale. L’incertezza è la situazione che le aziende temono più delle tasse, più della peste. Instabilità politica e mancanza di una cornice legislativa e fiscale chiara scacciano gli investimenti –tutti gli investimenti e quindi tra essi anche quelli per le energie rinnovabili. Secondo il rapporto Global Trends in Renewable Energy Investment (Frankfurt School-UNEP Centre), nel 2015 questi investimenti in rinnovabili del Regno Unito ammontavano a 22,2 miliardi di dollari, in crescita del 25% rispetto al 2014. Sarà interessante notare come questo dato cambierà nel corso dell’anno, probabilmente al ribasso. Un altro numero da monitorare è il Renewable Energy Country Attractiveness Index, di Ernst&Young: è l’indice di attrattività del sistema Paese. La Gran Bretagna figura adesso in dodicesima posizione (per un temine di paragone: l’Italia è molto distante, al venticinquesimo posto).

6.       Ricerca e fondi europei

La Gran Bretagna riceve più fondi dall’European Research Council di qualsiasi altro Paese: fondi che permettono alle università britanniche di finanziare oltre il 10% di tutti i progetti di ricerca tramite contributi europei. Inoltre i ricercatori britannici possono beneficiare di programmi come l’Horizon 2020. Dal 2007 al 2013 il governo della Gran Bretagna ha contribuito con 5,4 miliardi di Euro alle attività di ricerca e sviluppo nazionali; ha ricevuto ulteriori 8,8 miliardi di Euro dai fondi europei.

E infatti la comunità scientifica si era opposta alla Brexit: un sondaggio di Nature aveva coinvolto circa 2000 scienziati che vivono in Gran Bretagna, rilevando che l’83% avrebbe votato per restare nell’Unione Europea. Stephen Hawking e circa altri 150 membri della Royal Society dell’Università di Cambridge hanno espresso anche pubblicamente la loro opinione, dichiarando che la Brexit sarebbe un “disastro per la scienza e l’università britannica”.

Ma non è bastato. E’ da aspettarsi che la ricerca “made in UK” attraversi un periodo di difficoltà, specie nella fase di transizione. Anche la ricerca in materia di clima ed energia.

7.       L’incognita Scozia

La Scozia cercherà di rimanere nell’Unione Europea e di avere una voce in materia di energia in Europa: questa è l’opinione da Angus MacNeil, presidente della Commissione sull’Energia e i Cambiamenti Climatici del parlamento britannico e membro del Scottish National Party, in un’intervista con Utility Week. Si aspetta che Inghilterra e Galles si muovano verso uno status simile alla Norvegia, come membri dell’European Economic Area (EEA) ma senza la possibilità di influenzare le decisioni: invece, secondo lui “la Scozia resterà tra i decisori politici. Noi saremo in Europa, mentre Inghilterra e Galles saranno con la Norvegia, esercitando azioni di lobbying esterne. E’ pazzesco”.

Sulla stessa linea il primo ministro scozzese, Nicola Sturgeon che ha annunciato che un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia è “molto probabile” dopo il Brexit: secondo lei è “democraticamente inaccettabile” che la Scozia sia “trascinata fuori” dall’Europa contro il suo volere, in quanto in Scozia il 62% della popolazione ha votato per restare nell’Unione Europea. Se a queste parole risponderanno i fatti, il panorama cambierebbe.

 

Ancora non sappiamo quali saranno i termini del divorzio tra il governo di Sua Maestà e l’Unione Europea: la Gran Bretagna sta scrivendo su una pagina bianca di storia, in cui il nuovo governo e i negoziati con l’Europa saranno fondamentali per il loro e il nostro futuro. Anche energetico e climatico.

TAG: Brexit, cambiamento climatico, clima, Climate Change Act, Energia, energia rinnovabile, Gordon Brown, Gran Bretagna, Regno Unito, Unione europea
CAT: clima, energia

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