Le donne di Krushe, Tra forza e dolore

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12 Maggio 2015

Giovedì mattina comincia il nostro viaggio nel viaggio. Rispettando uno dei nostri leit motif prediletti, la lentezza, Luli – il nostro amico-traduttore-fixer-driver – ci conduce quasi a passo d’uomo da Mitrovica a Krushe e Madhe, paesino sonnolento a 2 ore, diventate 4, di macchina, situato a nord-ovest della più nota e viva cittadina di Prizren.

Forse qualcuno ne avrà già sentito parlare e non l’avrà dimenticata, per gli altri è proprio nell’odierno “Villaggio delle Vedove”, che Slobodan Milosevic e i suoi aguzzini hanno compiuto uno dei più sconvolgenti massacri del nostro tempo: il 25 e 26 marzo del 1999 un centinaio, secondo il sindaco con cui abbiamo parlato 241, uomini sono stati trucidati dalla polizia e le forze armate serbe, perché accusati di collaborazionismo con l’Esercito di Liberazione Albanese o UCK. Ma il mondo sapeva che l’unica colpa della quale si erano macchiati era essere nati nel posto sbagliato, con sangue e lingua sbagliati.

Scosse, camminiamo tra una distesa di lapidi bianchissime, che accecano per i raggi del sole cocente che vi si infrange. Sforziamo appena un po’ la vista e notiamo che in molte, quasi tutte, sono incise le stesse due date: 25 e 26 marzo 1999. Krushe è la nostra Srebrenica, sussurra Ali, il vice-sindaco, con un sorriso triste.

Come si trova, allora, la voglia di vivere dopo tutto questo?

Le vedove che ancora risiedono al villaggio non hanno più voglia di spiegarlo a parole, dopo che giornalisti di ogni dove sono entrati e usciti nelle loro fragili esistenze negli ultimi quindici anni, e preferiscono far parlare i fatti. Ci è voluto tempo, la ferita è ancora aperta e si legge sui loro volti ma, se non per loro, quanto per i loro figli, si sono rimboccate le maniche e hanno dato vita a una fiorente attività agricola e commerciale in città.

In un paese con almeno il 50% di disoccupazione e un PIL medio annuo di pochissime migliaia di euro, questo vuol dire una boccata d’aria buona per tutti. Lasciati da parte i pregiudizi di genere, alle donne di Krushe gli uomini riservano un rispetto e ammirazione palpabili.

La stagione del raccolto e produzione comincia a settembre ma nello scantinato della cooperativa di Krushe e Madr sono rimasti gli ultimi barattoli di ajvar – salsa tipica composta da peperoni e aglio. Tre donne diverse nei tratti e nei modi, ma complici nella loro iniziale titubanza verso di noi, raccontano il processo per ottenere la migliore versione in circolazione sul mercato e, vedendoci interessate, si lasciano andare un pochino, facendo trapelare la loro forte passione.

Accoccolate poi sull’uscio di casa di una di loro, ci facciamo mostrare i merletti da loro sapientemente cuciti e, provocandole un po’, scherziamo su quale tra quella biancheria intima sia la più adatta alle ricorrenze speciali. Fino all’ultimo esitiamo di fronte alla domanda che ci ronza in testa dall’inizio ma, visto che tra qualche minuto dobbiamo rimetterci in macchina, decidiamo di tentare.

Alla morte dei vostri mariti avete considerato la possibilità di risposarvi? Ci aspettavamo in risposta un silenzio o uno sguardo torvo, ma non che con una prolungata risata dicessero: “Neanche per un attimo. Avevamo i nostri figli a cui badare e per loro abbiamo deciso di unire le forze tra noi come in una grande famiglia.”

Se il passato è lì e non si può cancellare, le donne di Krushe e Madhe hanno trovato nella condivisione del lavoro, e della sofferenza vissuta, un modo per andare avanti e appropriarsi di un futuro migliore.

TAG: cooperativa, kosovo, krushe e madhe, massacro, slobodan milosevic, vedove
CAT: Cooperative, Questioni di genere

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