Il caffè (nero) è corretto?

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23 Dicembre 2019

Il linguaggio, oggi, è talmente degenerato che ci si perde una bella fetta di soddisfazioni. Attenzione, non è che sia degenerato per l’uso delle parolacce o del turpiloquio gratuito, quella, alla fine è solo una questione di stile. “L’osceno è sacro” scriveva Dario Fo che, insomma, è stato pure un Premio Nobel. Giusto o sbagliato importa poco, glielo hanno dato. E l’oscenità, o presunta tale, nel linguaggio e negli argomenti, fa parte della letteratura, da Orazio e Ovidio fino ai giorni nostri.

No, i problemi della degenerazione del linguaggio riguardano soprattutto l’aspetto semantico. Il significato delle parole usate, quando non addirittura dei modi di comporre sia le frasi sia i suoni e le immagini – perché il fenomeno riguarda anche la musica e le altre arti, figurative e rappresentative, in quanto trasmettono (o, almeno, dovrebbero trasmettere) dei contenuti – è il nocciolo della diaspora idiomatica che stiamo vivendo.

Anche lì, bisogna distinguere linguaggio e linguaggio, perché glottologicamente le variazioni e le influenze d’interi sistemi culturali fanno cambiare, nel tempo, i punti di riferimento e l’interpretazione che ne deriva può cagionare fraintendimenti colossali ed errate letture storiche.

Un esempio eclatante, proprio di questi giorni, è la scoperta che la Radetzky-Marsch (1848) di Johann Strauss padre, è nientepopodimeno che nazista. Ovvero che lo sarebbe la “rielaborazione” in chiave nazista da parte del compositore Leopold Weniger (iscritto al partito, così come erano fascisti anche Mascagni, Cilea, Giordano, Zandonai… forse non si rappresentano più le loro opere?), che consiste in una maggiore presenza di fiati e in un ritmo più rapido rispetto all’originale, in realtà più brillante e coinvolgente per il pubblico. Mi sembra un delirio.

Ma questi sono aspetti che andrebbero approfonditi altrove e con maggior spazio, perché se oggi si scrive una principale e una subordinata di primo grado già ti danno del prolisso e il lettore abbandona la lettura indignato.

La voglia di scrivere questo piccolo contributo a una speranzosa, forse illusoria, chiarezza deriva dalla costernazione che oggi si assiste al funerale dell’ironia. L’ironia non viene capita più, il messaggio viene preso alla lettera e causa fraintendimenti colossali, oltre che una figuraccia di chi mostra di non averla compresa. È pur vero che a volte, oltre a una libertà mentale assolutamente indispensabile, è necessaria una preparazione linguistica un po’ più elevata per comprendere le sfumature di una frase, e se non si hanno i punti di riferimento l’ironia può apparire oscura.

Una delle cose più eclatanti e penose è l’accusa di razzismo al povero Checco Zalone, a causa del clip introduttivo al suo film prossimamente nelle sale. Diciamo che io l’ho visto unicamente per constatare il degrado intellettivo che ci circonda e che mi preoccupa sempre più perché mi accade, anche qui, su questo giornale, di notare come molti commentatori non comprendano il contenuto e i riferimenti di molti articoli, scritti anche bene, peraltro. Qui, come nella maggior parte dei social, l’intelligenza è andata in libera uscita e non è più ritornata, ha disertato, rifiutandosi di stare in menti anguste che non se la meritavano.

Il povero Checco Zalone ha utilizzato parole, musica e immagini per mettere in ridicolo tutti, ma proprio tutti, i luoghi comuni dell’italiano medio e di ciò che comprende dell’immigrazione, e lo fa in chiave grottesca, naturalmente. E tutti a dargli addosso che è razzista e che non si può scherzare su simili cose e su e giù e qui e là, da far passare la voglia agli artisti di proporre qualsiasi lettura esuli dal politicamente corretto. Perché, attenzione, non è detto che il politicamente corretto sia poi così corretto sempre e comunque.

Mi viene in mente una delle più clamorose correzioni odierne di uno storico libretto verdiano, quello di Un ballo in maschera.

Nell’originale, che fa svolgere la vicenda a Boston nel tardo Seicento, a un certo punto, c’è la grande scena del vaticinio dell’indovina Ulrica. Agiscono spesso nel melodramma un indovino o un’indovina che predicono un futuro funesto a qualcheduno. In questo caso Ulrica è una negra – si può ancora dire negra anziché nera? Perché a quell’epoca i neri si chiamavano negri, e non colored, o abbronzati, o quel che pretenderebbe il politicamente corretto -, pure cieca (o bisogna dire non vedente?), che un giudice zelante vorrebbe esiliare dallo stato per pregiudizio nei confronti dei negri. Infatti il giudice, parlandone col governatore – il conte Riccardo Warwick, il tenore, un personaggio tutto sommato positivo – gli dice che va esiliata perché appartiene alla categoria dell’ “immondo sangue de’ negri” o anche “dell’abbietto sangue de’ negri”, a seconda della fonte. Riccardo invece, non vuole seguire il consiglio del giudice ma rendersi conto di chi è realmente l’indovina e la incontra di persona, travestito. Il resto poi ve lo andate a vedere nel libretto dell’opera, oppure vi vedete una buona registrazione, tradizionale, su youtube perché è una delle opere più belle di Giuseppe Verdi.

La frase incriminata, oggi, dove non si potrebbe più assolutamente parlare delle persone di colore (quale colore? Verde, viola, a strisce?) come “negri”, viene modificata. Il bello è che in altre lingue neolatine, come lo spagnolo, per dire nero si dice, senza altre possibilità, “negro”. E negro per nero si utilizzava anche in italiano, vedi, per esempio:

“Negra lucida chioma in trecce avvolta; 
greca fronte, sottili e brune ciglia; …”

dalle Rime (1789) di Vittorio Alfieri, senza scandalo alcun di nostra gente. Oggi se parli di un nero come negro ti danno del razzista.

Da premettere che nel libretto di Antonio Somma, utilizzato da Verdi, Riccardo e Oscar, il paggio, difendono Ulrica dalle contumelie del bigotto giudice, che, da cieco uomo di legge pieno di pregiudizi, parla dell’indovina in quei termini dispregiativi. Ma, come abbiamo visto, il termine “negro”, nel 1859, anno dell’opera, si usava normalmente nella lingua italiana alternato a “nero”. C’erano anche dei cognomi, che si usano ancora oggi tali e quali: Negri. Pensiamo ad Ada Negri, la poetessa di Lodi, o a Gino Negri, il compositore di Perleda, e così via. Forse, visto il livello di cultura di oggi, sarà più nota Sabina Negri, l’ex-moglie del leghista Roberto Calderoli, e non i due più illustri e rilevanti omonimi. Comunque, nel 1859, proprio negli Stati Uniti, il luogo dove si svolge la vicenda, la schiavitù esisteva ancora. E negli Stati Uniti, fin dai primi decenni del Seicento, gli schiavi erano negri e come tali erano chiamati. Uno schiavo era uno schiavo, non era trattato coi guanti gialli dalle classi dominanti, e poi nero si diceva negro. La smania, oggi, di attualizzare libretti e opere e drammi e commedie è spesso ridicolmente insulsa perché impedisce di inquadrare storicamente l’opera degli autori, fornendo pertanto allo spettatore un’interpretazione alterata.

Ma torniamo alla frase. Per non far torto alle persone di colore, oggi, che nel termine vedono un classismo intollerabile, la frase è stata più volte cambiata, facendo spesso peggio.

Nell’edizione West Press, del 2007, si legge “dell’immondo sangue gitano”. La pezza è peggio del buco. Per non discriminare i negri adesso si preferisce discriminare gli zingari. Nell’edizione moderna, scorrendo l’elenco dei personaggi, Ulrica, che nell’originale è definita “indovina di razza nera” (e oggi, come sappiamo, è peraltro improprio parlare di razze umane) diventa “zingara”. Anche la zingara è un ingrediente del melodramma romantico e postromantico: Azucena, Preziosilla, Carmen, le zingarelle della Traviata, e un sacco di altre occasioni folcloriche. Certo, non sono mai veramente viste di buon occhio ma così è. Quindi si pensa che, nel 2007, “immondo sangue gitano” sia meno offensivo che “negro”, non si possono offendere i neri ma i rom sì. Si salvi chi può.

Il povero Checco Zalone, che non parla di “negri” ma di “immigrati”, e che sciorina tutti i luoghi comuni che la gente ha in testa grazie alle demonizzazioni di certe destre attuali, è piombato in mezzo a questa visione distorta della realtà, dove dire “negro” è un peccato mortale e dove l’immigrato tout court è diventato simbolo di una categoria da reprimere o da difendere senza mezzi termini, senza considerare il corollario di pregiudizi e di superficialità che il termine si porta dietro nel comune sentire. Si pensa, ipocritamente, che solamente con un cambiamento di nomenclatura il problema si risolva facendo come sempre un fascio di tutte le erbe, e che basti dire nero o gitano per rispettare una persona mentre si fa di tutto per emarginarla lo stesso.

Questo cambiamento idiomatico in una lingua sempre più povera e che diventa ogni giorno sempre più misconosciuta, usata spesso impropriamente dagli stessi italiani, è il sintomo di come si siano persi i codici interpretativi della lingua stessa e quindi di come sia difficile oggi far satira ed essere capiti.

Ciò accade anche ad alti livelli, dove si dovrebbe conoscere qualcosa in più, sia della propria lingua che delle altre.

Per esempio, quando accadde il finimondo a Parigi, per l’attentato a Charlie Hebdo, che decimò l’intera équipe di giornalisti, si fece uno scandalo colpevolizzando la redazione di aver infiammato gli animi, in passato, con copertine che proclamavano “Le coran c’est de la merde. Ça n’arrête pas les balles”. Un islamico si difendeva facendosi scudo con uno spesso Corano che non riusciva a fermare i proiettili che lo facevano fuori, riferendosi ai recenti atti violenti accaduti in Egitto. Nel linguaggio satirico significava che nessun libro sacro ti può proteggere dagli atti terroristici e dalle pallottole, in pratica, e lo faceva con crudeltà, perché la satira usa anche mezzi crudeli per arrivare al cuore dei fruitori della stessa e per far comprendere il lato ridicolo e grottesco di molto sentire comune, ossia della realtà presentata secondo gli schemi del potere, per il quale le tre grandi religioni monoteiste sono intoccabili.

La visione politicamente corretta oggi dà quasi ragione agli islamici che si sono sentiti offesi da questa copertina e perfino intellettuali atei e raffinati come la sociologa Amalia Signorelli, buonanima, che avevo apprezzato sempre fino a quel momento, proclamò che non si poteva dire che il Corano era una merda.

Ora, nella lingua francese, per chi la conosce, “C’est de la merde” è una forma di argot per dire: “Non vale nulla, è buono a niente, è una ciofeca, è assolutamente inefficace” e così via. Nel linguaggio della satira, in tutte le lingue, l’argot e il doppio senso danno proprio il sapore del pregiudizio, da una parte e dall’altra, a chi legge o ascolta, e volerlo interpretare letteralmente significa non aver capito niente e fare la figura degli ignoranti. Signorelli, in quel momento, fece la figura dell’ignorante, esattamente come tutti gli islamisti in difesa dell’islam oltraggiato, perché dimostrò per prima cosa di non conoscere la lingua francese e, in seconda linea, di non aver compreso il messaggio satirico di Charlie Hebdo, che invece ribaltava il concetto. E come lei centinaia di presentatori televisivi e di altri intellettuali o pseudo tali. Non capire più la satira e rivoltarsi contro, anche da parte di ambienti dove si dovrebbe considerare la libertà d’espressione della satira come un diritto fondamentale, vuol dire che il lavoro fatto dal potere per cancellare le facoltà critiche del cittadino medio e preparare la strada per un mondo dove pensare colla propria testa è inammissibile ha raggiunto il suo scopo.

 

© dicembre 2019 Massimo Crispi

TAG: Alfieri, Amalia Signorelli, Antonio Somma, argot, charlie hebdo, Negri, negro, Orazio, Ovidio, razzismo, satira, Ulrica, Un Ballo in Maschera, Verdi, West Press, Zalone
CAT: costumi sociali

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