La parodia della cultura – 1

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21 Ottobre 2019

Inter arma silent leges, diceva Cicerone: tace la legge durante una guerra. Lo vediamo di continuo, ai nostri confini. La frase è stata anche parafrasata in Inter arma silent Musae, tacciono le muse quando parlano le armi. Oscillavano lievi al triste vento, alle fronde dei salici, le cetre delle muse, ricordava inerte davanti alla barbarie bellica Salvatore Quasimodo.

Ma le muse possono tacere anche quando sono altre armi a prendere la parola. Non necessariamente le armi devono sparare e fare un gran baccano. Armi più sottili, oggi, nell’era più tecnologica che il mondo abbia mai conosciuto, non hanno bisogno di sparare con clamore per silenziare le muse.

Basta “spegnerle“, le muse. Si fa presto. S’inventa una crisi planetaria dicendo che le risorse economiche non ci sono più, che i soldi sono finiti come la pacchia, che la cultura non si mangia e che è una cosa inutile, e che ciò che importa e deve importare è la “produzione“, tutto ha da costar poco, tutto deve essere “prodotto” in condizioni tali che i costi di produzione vengano abbattuti. Per i produttori, naturalmente. Produrre che cosa è del tutto ininfluente, anodino. Ciarpame, di certo. In tutto ciò la scuola è ormai considerata e trattata come un’azienda ed è “necessario” che prepari unicamente al mondo del lavoro, ossia produrre. Difficile definire quale “lavoro”, visto che il “lavoro” per cui magari si è studiato diventa obsoleto in pochi anni e che bisogna reinventarsene uno che non si è studiato. Tutto lo studio del mondo per un lavoro che poi viene cancellato dalla smania di produzione di qualcosa di diverso, secondo i capricci dei produttori. Viene chiamata flessibilità, un succedaneo della neoinettitudine appena espugnata. I soldi che ci volevano per mantenere delle condizioni di lavoro “civili” non ci sono più, viene narrato, una nuova schiavitù è sempre più giustificata e giustificabile e, per una casta, sempre la stessa, auspicabile. D’altro canto, se i cinesi e gli indiani, per non parlare degli africani e degli insulindiani, si accontentano di poco per poter far parte del meccanismo della “produzione”, perché gli europei e gli occidentali in generale non potrebbero fare altrettanto? Se non vogliono farlo, se non vogliono trasferirsi altrove, alle condizioni che decide il padrone, come se non avessero una vita, delle famiglie, degli interessi, la pena è uscir fuori dalla “produzione”, ossia la disoccupazione, la fame, l’annullamento. La famosa decrescita di cui tutti parlano, assai infelice, però. Quella felice, così disinvoltamente divulgata da forze politiche opportuniste e che passerebbero per innovative, è talmente ridicola per come viene descritta che manco vale la pena di commentarla.

Naturalmente i “soldi” non c’erano neanche prima di tutto ciò. I “soldi” erano – e sono, oggi più che mai, vista la guerra al contante che si sta oscenamente e nocivamente facendo strada – cifre che danzavano da un monitor all’altro, da una parte all’altra del mondo, cifre che si moltiplicavano o scomparivano semplicemente “giocando” in borsa, ma non si trattava né si tratta di denaro concreto. Queste cifre virtuali, enorme frottola propinata alle masse, hanno determinato cadute di governi, ascese di altri, spostamenti di voti, crisi bancarie, fallimenti, indebitamenti abissali di paesi che avevano intravisto un piccolo spiraglio per una promozione futura e che invece si sono inabissati ancora una volta, e, comunque, una destabilizzazione delle democrazie occidentali.

La cosa che viene ostentata ai popoli come fondamentale (ma per la quale in realtà chi governa non ha la minima ansia) è quindi una generica occupazione, da difendere in quanto tale, anche a costo di perdere diritti acquisiti dei lavoratori con lotte sindacali di anni e anni, non c’è più tempo di proteggere chi per forza perde il lavoro – il caso Whirlpool tra le centinaia -, siano le donne incinte o le persone che si ammalano gravemente, anche di malattie legate a professioni pericolose, dopo essersi esposte per anni a sostanze o a stili di vita insani, o perfino i famosi esodati, vittime di una transizione a cui nessuno aveva pensato: la nuova schiavitù è ormai un dato di fatto. Hai voglia di fletterti e di reinventarti un lavoro e una vita. Tutto si acuisce, poi, coll’arrivo di nuovi schiavi dai serbatoi mondiali della schiavitù, Africa in prima linea, e colla narrazione distorta che ne viene fatta dai soliti demagoghi. Quello che per anni, in questi ultimi decenni è stato considerato “qualità della vita”, con un gran rumore intorno al concetto, il tempo del riposo, dello svago, degli affetti familiari e sociali, all’improvviso svanisce per il cambiamento del concetto di “tempo”, figurarsi il tempo libero: i lavoratori, la gente in generale, vengono considerati fuori tempo massimo, come un sacchetto di patatine scaduto: “Vecchio, diranno che sei vecchio, con tutta quella forza che c’è in te”, cantava Renato Zero in Spalle al muro nel 1991. E chi perde il lavoro dà la colpa ai nuovi schiavi arrivati, senza sapere che le ragioni sono ben altre e ben calcolate da governi complici, spesso composti proprio da certi imprenditori senza scrupoli, dinastie di industriali che entravano e uscivano dai palazzi, seduti nell’anfiteatro e stipendiati dai cittadini per fare i propri interessi.

Sì, ma la cultura che c’entra? C’entra, c’entra.

Poi, ad ingrassare l’assurdità dei tempi moderni, arrivano perfino le classifiche delle città più vivibili d’Italia secondo il Sole24ore, che sono una caricatura, un’esibizione molesta di snobismo fuori luogo, come se si giocasse a fare una gara per miss Italia. Vengono perfino inventate delle finezze tecnologiche per moltiplicare il tempo a disposizione, i telefoni cellulari nella versione smartphone, che possono squillare sempre, anche di notte, per avvertirti di controllare e-mail o social network, che servono per mantenere i contatti, anche e soprattutto per “lavoro”. E bisogna essere sempre disponibili per lavorare, per fare qualunque cosa. Non ci sono più tempi biologici. Il giorno e la notte non hanno più significato in un mondo globale che deve pulsare sempre e dove il sole è sempre acceso. Anche se i nostri corpi, invece, sono corpi biologici che avrebbero bisogno di scansioni altrettanto biologiche di luce e buio. Non importa tutto questo a chi detiene il potere, anche se il demagogo di turno si fregia di occuparsene e promette, come sempre, cose che sa che non riuscirà a mantenere. Ma la moderna frenesia demagogica impone, se possibile, bugie sempre maggiori.

Naturalmente è una falsa emergenza. I nostri paesi occidentali non sono meno ricchi di quanto fossero prima di questa crisi inventata. L’Italia produce sempre arance, vino e mobili (sempre meno, vista la capillarità di IKEA che produce in luoghi remoti dove la manodopera costa assai poco) e, forse, eleganza, la Spagna produce sempre olio e tonno, l’Olanda produce sempre fiori e marijuana, la Germania produce auto, magari anche truccate, il Medio Oriente sempre petrolio, gli USA e la Cina una quantità di rifiuti sempre più grande e l’Africa schiavi senza fine, oltre alla monnezza. Ma si “vende” poco, e ci vien detto che a causa della crisi tutto costa di più. Ci viene fatto credere che per sopravvivere è importante comprare ipad, ipod, iphone, soprattutto automobili euro 2, 3, 4, 5, 6, 1000, sempre più elettriche e “pulite” (mentre, ovviamente, non è vero perché non viene furbescamente considerato e palesato il ciclo vitale di un oggetto ma solo l’effetto presumibilmente immediato), e avere abbonamenti a Sky, utilizzare servizi telefonici che offrono le cose più disparate a prezzi sempre più competitivi, con uno spirito da lotteria sempre più frequente. Poco importa se questi aggeggi si rompono dopo uno o due anni, se ne compra un altro, anche se costa, tanto si compra a rate… ma s’ipoteca comunque qualcosa, non si può “regalare” sempre.

Una scena da Minority Report, di Steven Spielberg, 2002.

Intanto, per tenere in schiavitù i nuovi potenziali schiavi, si fa sentire il popolo insicuro, minacciato da un sacco di eventi incombenti e sinistri, irraggiungibili e poco dominabili. Si diminuisce l’informazione, paradossalmente, in un mondo che grazie alle tecnologie dovrebbe essere sempre più informato, in un mondo che proprio grazie alle tecnologie ha potuto vedere in diretta, ovunque, la più grande operazione di terrorismo mediatico mai realizzata, l’abbattimento del WTD a New York in una data che resterà scolpita nella mente di tutti. Grazie a questo “prodotto” mediatico hollywoodiano, “capolavoro”, come lo definì Karlheinz Stockhausen attirandosi le ire e lo sdegno di tutti, la nostra privacy non esiste più, molti governi possono vedere i contenuti di e-mail e chat line, social network e quant’altro, infilarsi nelle nostre case come il Grande Fratello di George Orwell (1949) visionario autore che già poco dopo la seconda guerra mondiale previde in che direzione il mondo stava andando. Non ci vorrà molto che anche il futuro di Minority Report (1956), di Philip Dick, poi realizzato per lo schermo da Spielberg, dove si condannano le persone per dei delitti che non hanno commesso ma che potrebbero commettere secondo le visioni di alcuni veggenti sventurati, confinati perennemente a mollo nella vasca della memoria universale, si riveli sempre più possibile e reale. La strada è quella. I droni che possono controllare ogni nostro passo già ci sono, anche se facciamo finta che non ci siano. La letteratura e Hollywood spesso anticipano la realtà.

Sì, va bene, ma la cultura? Ci arriviamo.

In un mondo che va in questa direzione, ogni cosa che faccia riflettere, pensare, formulare delle idee diventa assai pericolosa. Cogito ergo sum, ribadiva Cartesio, Penso quindi sono. “Essere” è ovviamente pericolosissimo in un mondo futuro così come si sta costruendo, e non vuol dire necessariamente pensare. “Essere o dover essere, il dubbio amletico” canta Francesco Gabbani in quel piccolo capolavoro che è Occidentali’s Karma (2017). Essere dovrebbe significare sostenere una propria identità, affermare ciò che si sente, ciò che è il prodotto di stratificazioni storiche e culturali di varia origine, di pensieri tra i più disparati, intrecci di filosofie, esperienze, racconti, letture, ascolti, idiomi. Noi siamo quel “prodotto“. Un siffatto prodotto diventa pericolosissimo, perché contiene in sé il germe della libertà di pensiero e la sua sopravvivenza, va avversato. La libertà di pensiero, che sarebbe alla base delle democrazie occidentali, così sfacciatamente esibita nelle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e nelle Costituzioni, è sempre più sottile e giorno dopo giorno ne sparisce un pezzo, ingurgitato dalla “crisi”. Pochi cercano di difenderla, questa libertà, ma politici arruffapopoli o complici dicono che “la cultura non si mangia”, che “è uno sciocco hobby di sinistra“, ministri della pubblica istruzione devastano scuole e università con provvedimenti che lasciano senza parole, e così via. Oltre alla libertà del pensiero si perde anche la capacità logica, ossia proprio ciò che potrebbe aiutare l’uomo a trovare altre occupazioni, inventandosele magari, sfruttando l’infinito pozzo di sapienza, esperienza e adattabilità che la specie ha dimostrato di possedere nel corso dell’evoluzione.

Si riescono addirittura a galvanizzare masse enormi di giovanissimi nel mondo quasi intero per delle battaglie “ecologiste”, incoraggiandole a scioperare contro il cambiamento climatico, il ministro dell’istruzione dicendo addirittura che la lezione che apprenderanno in queste proteste sarà più importante (di ciò che potrebbero imparare a scuola?). Quando mai è successa una cosa simile? Coloro che dovrebbero occuparsi di tramandare la memoria di tutto e di formare quella che poi lo diventerà si rifiutano o per incompetenza o per mala fede di riconoscere la cultura, o, peggio, chiamano cultura ciò che ne è diventata una parodia. Ecco, forse parodia della cultura è la definizione più appropriata per quest’esibita operazione di annullamento culturale camuffata da rivalutazione culturale. I pochi che resistono e che cercano di difendere i fondamenti del linguaggio, strumento indispensabile per comprendere chi e ciò che ci sta intorno, sono visti come obsolescenti fantocci, polverosi e molesti che importunano la modernità (probabilmente composta dalle celebri tre “i” berlusconiane e continuata cogli scempi che conosciamo), il futuro, che è un bambino che deve ancora nascere e che si esprimerà kome in 1 mess dei social xkè non ce tempo x pensare. E chi prepara e asseconda una visione infantile del futuro brama di avere i voti di quei giovani e li seduce con armi ben camuffate da isteriche e giovanissime condottiere che diffondono insulsi mantra senza sosta sull’esclusiva proprietà giovanile di quel futuro. Come se il futuro non fosse di tutti, anche vostro e mio. I sogni rubati, ma per favore… senza rendersi conto che loro, i giovani attuali, hanno mille volte le cose che noi non avevamo e di cui facevamo a meno, senza bisogno di rubare, di prostituirsi o di uccidere per averle. Semplicemente se non si avevano le possibilità non si compravano. Anche perché spesso quelle cose si rivelavano assolutamente superflue. Oggi tutti, e soprattutto i giovani, vogliono tutto e irresponsabili genitori si sentono in colpa se non glielo forniscono seduta stante e se non possono farlo molti ragazzi si sentono autorizzati a compiere atti disdicevoli per raggiungere lo scopo. Avere per essere è sempre più il paradigma. Quand’ero giovane Erich Fromm era di gran moda e, oltre al già citato Fuga dalla libertà in un altro mio intervento, si commentava tra amici e compagni di scuola Avere o essere? (1977) dove si trovavano spunti per una propensione all’essere, naturalmente, con una crescita interiore assolutamente urgente. Anni 70. Avere, avere, avere, fai fortuna con bitcoin, trading, Gianluca Vacchi ti rivela il suo segreto, diventa influencer come Chiara Ferragni e così via, sullo smartphone arriva di continuo pubblicità su come arricchirti e procurarti facilmente la felicità. Non sempre essendo così scontato diventare maestri di eleganza come Ferragni o Vacchi, è più rapida e praticabile la via della delinquenza. Oggi scippi, truffe, sesso a pagamento, spaccio di stupefacenti sono diventati normali tra adolescenti, specialmente in luoghi dove il controllo dei genitori o non c’è, per assenza fisica dei genitori, magari in carcere o emigrati per lavoro, o morti sul lavoro o ammalati per colpa delle condizioni insicure; oppure perché i genitori, spesso ricchi, pur di non occuparsi dei figli e pensare al proprio edonismo li lasciano davanti a cellulari e play station con videogiochi violenti e spaventosi che sono la scuola della sopraffazione e dell’intolleranza, del razzismo e della violenza, come è emerso pochi giorni fa dall’indagine avviata dalla polizia postale di Siena per quegli adolescenti borghesi e annoiati, soprattutto di Torino, che in chat scrivevano cose orrende sulla Shoah, The Shoah Party, rivelando una ferocia inaudita che si esprimeva in insulti, orgogli razziali, pedopornografia violenta e altri amabili passatempi. Giocavano, povere creaturine. L’altra faccia della medaglia da far notare a chi vorrebbe dare irresponsabilmente e demagogicamente il voto ai sedicenni.

Per quanto riguarda la maggior parte dei giovani delle manifestazioni del venerdì, coloro ci cascano come una pera cotta e se ne compiacciono, senza rendersi conto di essere diventati uno strumento. Così come per tutte le altre cose, dai videogiochi ai finti bisogni del consumo. Il futuro, in questa proiezione bambinesca, è limitato alla catastrofe imminente, la spada di Damocle di fabbricazione postindustriale che avrebbe sconvolto un clima che si rivolta contro l’uomo, prendendosi forse una rivincita per la supposta superbia umana e adulta. Non esiste altro, nella visione semplicistica accolta e gonfiata anche dalla politica o da una sua certa parte e, ovviamente, della religione che vede sempre l’uomo come distratto e colpevole custode dell’opera perfetta di un remoto creatore. Non esiste alcuna analisi che possa portare alle cosiddette e agognate – e impossibili – emissioni zero di anidride carbonica, mentre le destre, che restano saldate a un anacronistico e razziale concetto di famiglia, si lagnano che non si fanno più figli “italiani” mentre il problema sarebbe proprio quello opposto, ossia la sovrappopolazione di tutto il mondo, in aumento parabolico. Con questo mediatico e perpetuo lavaggio del cervello la scuola occupa un ruolo di volta in volta ulteriormente marginale, visto che è meglio scioperare il venerdì perché si apprende di più.

 

1 – continua a

La parodia della cultura – 2

 

© Ottobre 2019 Massimo Crispi

TAG: Avere o essere?, catastrofismo, Cultura, cultura di massa, decrescita felice, Dick, Economia della decrescita, Ferragni, flessibilità, Fromm, Gabbani, grande fratello, ikea, migrazione, Minority Report, Occidentali's Karma, Orwell, parodia, Quasimodo, schiavitù, scuola, Spielberg, The Shoah Party, Università, Vacchi
CAT: costumi sociali

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