L’uso dell’italiano? E’ finito a bagasce. Lo dice il Censis

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22 Marzo 2017

“E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”. Tuonava così, senza mezzi termini, la missiva indirizzata poco più di due mesi fa da seicento docenti universitari, fra cui molti linguisti e accademici della Crusca, al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, alla ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli e al Parlamento. “Da tempo – si leggeva ancora nella lettera – i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà universitarie hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”. La colpa veniva quasi totalmente scaricata su un sistema scolastico che non reagisce in modo appropriato, “anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico”.

Con molto meno clamore, sull’argomento, declinato in altra maniera, è tornato l’altro giorno il Censis nel rituale appuntamento per il ricordo di uno dei suoi fondatori, Gino Martinoli, scomparso nel 1996. Alla sua figura viene dedicato un annuale appuntamento di riflessione volto ad esplorare le prospettive future della società italiana. Il tema affrontato quest’anno è stato il lessico e il suo involgarimento. Anzi, per usare il termine esatto, il suo rancoroso “imbagascimento”. Insomma, che la lingua italiana stia andano a … adesso, a dirlo, è l’istituto di ricerca sociale, che indica, però, anche una possibile via di uscita: la moltiplicazione dei lessici e la conseguente polisemia.

Nella sua relazione introduttiva, il presidente del Censis Giuseppe De Rita ha spiegato che “forse non ce ne rendiamo conto o, più frequentemente, rimuoviamo il problema: il linguaggio per noi ordinario (quello dei lettori di libri e giornali, come quello dei programmi e degli atti pubblici) è sempre meno connotante e unificante; tende a essere sostituito da un lessico gergale, strutturalmente povero, senza articolazioni, segnato da istinti pauperistici e nei fatti vocazionalmente plebeo; diventa sempre meno utilizzabile, quindi, per mobilitare scambi e convergenze di pensiero e opere”.

Conseguenza, per De Rita, è che nei fatti:

la lingua italiana di oggi è ben lontana da quella ricchezza linguistica e semantica che ha avuto per secoli e che è stata forse il fattore decisivo per l’affermazione della unità e della identità nazionale:

– si usa un vocabolario ristretto, di poche parole e sempre meno differenziate e articolate;

– si lascia intorno ad esse un alone indistinto, che dovrebbe richiamare altri riferimenti analoghi, ma che di fatto rende tutto senza vigore e  precisione;

– per sopperire a tale difetto, si indulge alla reiterazione di concetti  e parole, quasi che il ripetere più volte il messaggio (magari ad alta voce, magari col grido) sia capace di renderlo più solido e più convincente;

– ai livelli medio-alti si cerca di ovviare a tale debolezza con un frequente uso delle metafore, scegliendole però fra quelle più banali e insignificanti (si pensi al quasi nulla che c’è dietro parole come “carrozzone”, “casta”, “ripresa”, ecc.);

–  mentre a livello medio-basso ci si attesta sul valore espressivo totalizzante e definitivo (e che per molti salva dal dialogo) della “parolaccia”.

De Rita non “scarica” la colpa dell’imbagascimento del lessico sulla scuola, ma offre un’altra chiave di lettura del fenomeno, individuando il “colpevole” nella “cetomedizzazione”, un processo che:

Nessuno può negare  abbia drasticamente ridotto le distanze fra classi e gruppi sociali, ma essa nel contempo (anche attraverso il depotenziamento della componente elitaria del sistema) ha distrutto ogni speranza che gli italiani del ceto medio possano avere un linguaggio “borghese” articolato e polisemico.

Pertanto

Non c’è da sperare che essi pensino o scrivano come Leopardi e Manzoni, come Mario Luzi o Luigi Einaudi: “roba passata” per chi è saturo di televisione e di social media; ma roba anche concretamente impossibile, visto che non ci sono più giunture intermedie di elaborazione culturale e quindi anche linguistica.

Conseguentemente

Nel corpo sociale, onnicomprensivo e indistinto, c’è un abissale vuoto linguistico, in cui ognuno può scorrazzare a suo piacimento, quasi senza regole collettive e responsabilità individuali. Avviene addirittura per le notizie, figurarsi per le parole.

Uno dei contributi più interessanti forniti per il dibattito sul tema è stato quello di Dario Di Vico, giornalista del “Corriere”:

Penso che a monte ci siano due “cause”. La prima riguarda la tecnologia e la velocità che ha indotto nella comunicazione delle stesse élite. L’esigenza di essere sempre connessi – ne parlo da vittima – frantuma la concentrazione, rende molto più arduo lavorare su pensieri lunghi, crea un’intermittenza dannosissima. Il linguaggio ne risente, perché non c’è mai ricarica, si legge meno letteratura e a valle si finisce per usare parole tratte dai vari slang professionali o dettate dall’estrema semplificazione tipica del mainstream mediatico. Il tempo della produzione di parole si è ristretto e il vocabolario ne risente. Non è facile invertire questa tendenza, bisognerebbe creare un movimento slowthink.

La seconda causa che investe di più il “popolo” è dovuta all’allargamento delle chance di comunicazione. Chi scrive su Facebook quelle cose prima poteva dirle solo al bar o a cena con gli amici dopo aver alzato troppe volte  il bicchiere. Noi abbiamo avuto un’apertura della società proprio mentre saltava il baricentro e il caos di orientamenti e di voci odierno è frutto di questa coincidenza. La nostra apertura della società ha un segno plebeo perché non ha speranze e utilizza il linguaggio del rancore. E come se le curve Nord o Sud avessero imposto una loro egemonia nell’interpretazione dei fatti. Quindi si “sbraga” perché possono parlare tutti ma i tutti di oggi pensano e si esprimono in questo modo. Sono essenziali e crudi in  quella che appare loro come la difesa strenua delle proprie posizioni, l’identità “contro”.

La relazione integrale di De Rita con i contributi di Giorgio Calabrò, Giorgio Dell’Arti, Fabio Isman, Marco Follini e altri è scaricabile dal sito del Censis (www.censis.it), la registrazione integrale dell’incontro, trasmesso  dal vivo in streaming il 20 mar 2017 al link qui sotto

http://https://www.youtube.com/watch?v=fmlZJnjN0qg

 

TAG: censis, giuseppe de rita, Lessico
CAT: costumi sociali

2 Commenti

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  1. giorgio-cannella 7 anni fa

    L’articolo è interessante.
    Cosa propongono le persone in esso citate per risolvere il problema di cui parlano ?

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  2. alding 7 anni fa

    Siamo alla americanizzazione del linguaggio (e della scrittura); peccato che ciò significhi gettare alle ortiche almeno 1500 anni di crescita culturale in più rispetto agli States. Ma se almeno questa americanizzazione avvenisse anche in altri settori, molto più prosaici … quali efficienza, crescita economica, etc. etc. … Purtroppo invece americanizziamo solo il linguaggio, omologandoci verso il basso, come – sempre – noi Italiani sappiamo ben e sempre fare!

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