Punti di vista

:
23 Marzo 2021

Sta facendo la simulazioni del test per l’Università. E ogni due per tre viene a chiedermi il significato di una parola. Le mancano. Ne ha poche. Legge poco poco. O meglio, legge solo quello che deve studiare, sui libri si scuola. Una lingua spiegona. Senza slancio. Senza eros. E se le parole non ti eccitano, non si fanno ricordare. Il tempo materiale per dedicarsi ad altre pagine però, non si trova. La mattina lezione schermata, e il pomeriggio c’è sempre da studiare, per qualche imminente verifica. Il tempo liberato, a parte l’adrenalina che invoca l’ora d’aria, vuole film, serie tv, video su youtube, messaggiare furioso con il suo mondo. Insomma, ancora schermo. È questo il suo tempo, e parlano le immagini. E poi musica, musica, musica! Tutto il resto è rumore di fondo. Quando non inquinamento acustico.

– Penelope, perché ogni parola che incontri, e non sai, non ne cerchi al volo il significato? E dai, dieci secondi, e la metti via, da parte, che ti servirà! – Mi risparmio la tiritera di noi, che dovevamo prendere un volume d’enciclopedia da tre chili, scegliendo quello con le lettere che vanno da/a, e andare a stanare la nostra parola.

– Mi piace come me le spieghi tu. Le capisco meglio.

Ah ecco! Mi lusinga, certo. Siamo abituati che il genitore, di un diciottenne poi, non capisce una mazza, è vecchio, va sopportato… Però so anche che preferisce la mia spiegazione perché è già pronta, breve, e su misura per lei. Per il suo sentire. Non didattica. Magari pure un po’ cialtrona, approssimativa, ma a lei basta. Non deve fare sforzi di comprensione di altre parole. Mi preferisce perché è pigra. E dolcemente ruffiana. L’è insci.

Io sono una scriba perché non studiavo una mazza e il mio tempo lo passavo a leggere come un serial killer. Senza una logica. Volevo godere. E poco altro. E oggi che devo usare gli occhiali non posso permettermi più quelle notturne infoiate, bulimiche, dove ogni pagina era dietro l’altra come una chip, una mandorla, o la classica ciliegia (de gustibus). Dove non avrei potuto prender sonno, prima di aver consumato quella storia, quel viaggio, quella solitaria mistificazione.

Guardo l’altra, la Brigitta, la mia fresca dottoressa, con la sua sottile e sofisticata montatura in punta di naso. Negli anni ’70 portare gli occhiali era un dramma, una frustrazione. “Occhialuto” era un marchio a fuoco. Un bell’handicap, che limitava anche il broccolo. Oggi non frega una mazza a nessuno se porti o non porti gli occhiali. Anzi, l’accessorio va di brutto. E lei ci ha messo un pomeriggio a scegliere quello che si adeguava al suo ovale piccolo e perfetto. Adesso è piegata su un puzzle da 2000 pezzi. Sta cercando di completare il profilo di un planisfero antico. Il puzzle, con la tele accesa da sottofondo, è un momento di relax tra lei e sua madre che si è cementato in questo tempo obbligato casalingo. Gioco inconcepibile, per me. E, guardando la montagna di pezzi ammassati, pure impossibile.

– Non vi basta aver passato la giornata sul computer, perché volete bruciarvi la vista ancora di più?

Mia moglie risponde che sono io che non ho pazienza, che non so rilassarmi, che la vista non c’entra niente. E va bene. Un classicone, le prime due. La terza, da sindacare pesante.

– Papi, pensa se nascevi dopo, come noi, tipo! – questa è Brigitta. – Tu almeno per i primi trent’anni non hai tenuto la testa su un pc o su un telefonino.

Vero. Pensa che culo! Loro invece sono destinati a essere cecati presto. Probabilmente è l’umanità tutta destinata a cecare. E a farsi Cyborg. Nel frattempo, ci starebbe una dose di orizzonte giornaliera. Guardare aperto, oltre, a caso. Per almeno tre ore al giorno. E le parole lasciarle gironzolare nella testa. Magari si mettono a ballare. E prese bene, s’accoppiano. A quel punto, ci sta anche che proliferino.

TAG: leggere, Occhiali, parole, Romanzi, scuola
CAT: costumi sociali

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...