Il ventennio, Gadda e il Corriere

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2 Marzo 2015

«Il ventennio è finito». Così l’allora presidente del consiglio commentò la scissione del principale partito della destra, circa un anno fa. Presto il suo governo cadde e non se ne parlò più. Ma ora, similmente, ci si domanda se l’elezione del presidente della repubblica abbia segnato, nelle parole del sondaggista del Corriere della Sera, «l’uscita di scena definitiva di Silvio Berlusconi come leader politico». È così? Ossia, il ‘ventennio’ coincide con la vicenda di quell’uomo politico? Ed è finito?

Alla fine dell’altro ventennio Carlo Emilio Gadda scrisse un «libello» feroce sul fascismo, Eros e Priapo. Era convinto che per superare quel disastro fosse prima necessario descriverlo: «[l]’atto di conoscenza con che nu’ dobbiamo riscattarci prelude la resurrezione se una resurrezione è tentabile da così paventosa macerie». Questo ventennio ha lasciato meno detriti sulle strade delle nostre città. Ma forse è vero anche per noi che «il transitus da follia a vita ragionevole non potrà farsi se non prendendo elencatoria notizia delle oscure sentenzie, che hanno scatenato gli oscuri impulsi» di questo ventennio. Ossia, saremo certi che esso è finito solo quando avremo saputo scriverne non dico la storia ma almeno una narrazione plausibile.

Per capire a che punto siamo guarderei a cosa scrive il Corriere, perché questo giornale si ritiene ed è diffusamente percepito come la voce mediana dell’opinione assennata e lungimirante. E guarderei in particolare a come il Corriere commentò i due episodi – la condanna definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale, e il voto di fiducia che prima incrinò il suo partito e poi condusse alla scissione dalla quale nacque il Ncd – che segnarono l’inizio e la fine della sequenza di eventi che avrebbe chiuso il ventennio.

Ma prima voglio ricordare che Gadda se la prendeva anche con «codesti istorici de’ mia stivali [che] non fanno computo bastevole del “male” [per assecondare il] disiderio, legitimo, di “non udire certe sconcezze” che è proprio d’alcuni galantomini bene educati».

Cos’altro, infatti, se non questo «disiderio» informa l’editoriale di Antonio Polito che il Corriere pubblicò il giorno dopo la condanna di Berlusconi? La sentenza era tanto indesiderata – una «vittoria dei giudici dal sapore amaro», la definì Massimo Franco sulle stesse pagine – che non è descritta se non nei suoi effetti: la sentenza è un «colpo». Un «colpo micidiale» al sistema politico, e un «colpo molto duro» al paese e alla sua immagine internazionale. La tesi è debole – se il colpo è la sentenza, e non la frode, allora la causa del vento è il moto delle fronde degli alberi – ma forse consentì ai «galantomini bene educati» di distogliere lo sguardo dalle «sconcezze» che i giudici avevano svelato. Ma se i due commentatori non hanno confuso cause con effetti ciò che volevano dirci è che, frode o non frode, una persona che ha governato il paese per nove anni non doveva essere condannata.

Mentre secondo Gadda «[l]’atto di conoscenza… ha da radicarsi nel vero», e non deve «chetarsi a un bel sogno, o all’astrazione della teoretica pigrizia».

Fu invece un «bel sogno» l’importante editoriale – La zattera della Medusa, pubblicato il 6 dicembre 2012 – con il quale il direttore del giornale fissò quella linea. In quei giorni non era chiaro se Berlusconi avrebbe guidato il suo partito alle elezioni, che erano imminenti, e alcuni suoi dirigenti invocavano le primarie. Ecco il passaggio centrale dell’articolo: «[s]e c’è, come crediamo, un gruppo dirigente liberale e democratico all’altezza del compito, ma soprattutto responsabile, deve avere la forza di separare il proprio destino politico dalla deriva solitaria e resistenziale del proprio capo».

Questi sono aggettivi appuntati al petto di un gruppo dirigente che prima sprecò una legislatura a confezionare leggi ad personam, tutte approvate con rapido, unanime e direi allegro consenso da quella maggioranza, mentre la produttività della nostra economia era ferma, poi pensò di contrastare la crisi negandone l’esistenza, sino all’orlo del baratro, e infine si prese il gusto di fare la fronda al governo di emergenza, chino a raccogliere i cocci, per raccogliere voti. Poco dopo quel gruppo dirigente «liberale e democratico… ma soprattutto responsabile» sconfessò anche l’altro attributo – «all’altezza del compito» – che il direttore del Corriere gli aveva forse troppo precipitosamente elargito, poiché gli mancò «la forza» di separarsi dal «proprio capo» (parola raramente ben scelta). Solo metà lo fece, e solo dopo elezioni e condanna.

E allora che pensare del più recente editoriale – Il nemico allo specchio, pubblicato il 24 Settembre scorso – nel quale il direttore del Corriere rivolge critiche piuttosto dure all’attuale primo ministro e alla sua «squadra»? Sono rilievi largamente convincenti: ma dobbiamo ritenere che il giornale giudichi questo gruppo dirigente meno «liberale», «democratico», «all’altezza del compito» e «responsabile» di quello – ora diviso tra Forza Italia e Ncd – che ricevette queste quattro impegnative lodi? Vi invito a scorrere nella mente nomi e volti, senza caritatevoli omissioni.

Il Corriere ha narrato le deteriori pratiche politiche ed economiche di questo ventennio con precisione e senza censura. Sulle sue pagine scrivono autori come Claudio Magris e Corrado Stajano. Ma è possibile che la stoica cautela dei suoi principali editoriali di fronte a quelle «sconcezze», durata vent’anni, ne sia gradualmente divenuta concausa. Ammantando il proprio giudizio di eufemismi e inesatte comparazioni (cerchio e botte) il Corriere ha probabilmente confuso l’elettorato, che invece aveva bisogno di strumenti di giudizio adeguati a un’insidiosissima deriva populista, e insieme ha offerto copertura politica, e direi anche morale, agli interessi che hanno beneficiato di quelle pratiche. L’ipotesi mi pare plausibile, ed equivale a dire che il Corriere ha sostanzialmente abdicato al compito di suggerire al vasto segmento della società che vuole rappresentare un modo più efficiente e virtuoso di perseguire i propri interessi. Infatti la critica liberale del ventennio si leggeva soprattutto sull’Economist, famosamente, e sul Financial Times.

Mi pare emblematico, a questo proposito, che per persuadere Berlusconi a farsi da parte prima delle elezioni del 2013 La zattera della Medusa gli promettesse l’indulgenza della storia. L’argomento conclusivo della perorazione del direttore del Corriere, infatti, è questo: «[c]on un’uscita di scena più dignitosa, il giudizio [degli storici] non potrà che essere più articolato e imparziale». Berlusconi evidentemente lo prese in parola e pensò che valeva anche il contrario (ossia che se lui non fosse uscito di scena volontariamente il giudizio degli storici sarebbe stato meno articolato e imparziale: e lui non poteva che uscirne meglio). Ma, a parte l’errore tattico, il ricorso a questo argomento suggerisce che al Corriere mancava l’autorevolezza per dirgli, semplicemente, di andarsene. E gli mancava, immagino, per le ragioni che ho appena ricordato.

Berlusconi è identificato col ventennio perché fu esplicito apologeta dell’evasione fiscale e simbolo, volente o nolente, della corruzione politica. Ma questi due fenomeni – che, insieme al crimine organizzato, sono manifestazione e concausa della debolezza delle nostre istituzioni – preesistono al ventennio, non paiono diminuire, e nuove leggi per contrastarli sono ancora in discussione, dopo successive marce avanti e marce indietro. Quindi che Berlusconi esca di scena o meno è questione di scarsa importanza, che lascerei a lui e ai suoi elettori. Il ‘ventennio’ finirà quando quei fenomeni scenderanno a proporzioni fisiologiche, e quando avremo risposte plausibili a queste domande: quali settori della società hanno beneficiato di quelle distorsioni e le hanno alimentate e perpetuate? Perché hanno preferito quella strada per promuovere i propri interessi? Perché è stato – e forse resta – politicamente conveniente non aggredire con vera determinazione quelle distorsioni? E quindi, perché il Corriere – che giovedì scorso ha pubblicato un commento di Paolo Cirino Pomicino (intitolato La politica può rimediare alle colpe della finanza: può darsi, ma rimedia meglio quando non prende quelle tangenti per le quali l’autore patteggiò un paio d’anni) – seguì quella linea?

TAG: corruzione, giornalismo, ventennio
CAT: costumi sociali, Criminalità, Editoria, Partiti e politici

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