Mammo ergo Sum*: Il distanziamento sociale e il nostro essere mammiferi

30 Agosto 2020

Prima di essere un cittadino e un essere umano sono un mammifero. Ne consegue che prima di sforzarmi di essere un buon cittadino e un buon essere umano dovrei anzitutto sforzarmi di essere un buon mammifero. Raramente i filosofi si sono impegnati a riflettere sulle implicazioni del nostro essere specificamente mammiferi e non genericamente animali (magari animali razionali, animali malati, animali simbolici e chi più ne ha, più ne metta). Non c’è dubbio che, per continuare il pensiero iniziale, prima di essere mammiferi siamo vertebrati, prima di essere vertebrati siamo organismi e prima di essere organismi siamo cose fisiche, ma la nostra condizione specifica di mammiferi impone una riflessione particolare in questi tempi bui in cui ci viene intimato che per essere buoni cittadini occorre stare alla larga gli uni dagli altri. Questo nuovo imperativo morale è compatibile con il nostro essere mammiferi o addirittura buoni mammiferi?

Un mammifero è un essere che inizia la propria traiettoria esistenziale letteralmente fuso con il corpo di un altro mammifero, lo stesso dal cui seno trae il proprio unico nutrimento per molti mesi (in alcuni casi, come gli oranghi, addirittura anni) e dal contatto con il quale dipende interamente per il proprio benessere fisico e psicologico. Nei reparti di neonatologia si è osservato come il contatto fisico con la madre e il padre sia un fattore terapeutico coadiuvante potentissimo per i bambini nati prematuri, riducendo significativamente il rischio di malattie e disfunzioni, nonché il tempo necessario a completare lo sviluppo organico. Invece di essere lasciati nelle incubatrici tutto il giorno, come si faceva fino a qualche tempo fa, i neonati prematuri passano adesso diverse ore al giorno sul petto dei propri genitori, beneficiandone enormemente.

Non si tratta di una dinamica che riguarda soltanto le prime fasi della vita, né di una caratteristica esclusivamente umana. Come mostra il primatologo Frans De Waal nel suo ultimo, straordinario libro L’ultimo abbraccio: Cosa dicono di noi le emozioni degli animali (Milano: Raffaello Cortina 2020) tutti i mammiferi, giù fino ai topi e alle arvicole cercano la prossimità dei propri simili, amano farsi solleticare, risolvono i conflitti baciandosi e accarezzandosi a vicenda. La ricerca costante e pervasiva della prossimità fisica tra mammiferi è inoltre direttamente connessa con il rilascio dell’ossitocina, il cosiddetto ‘ormone dell’amore’, sostanza decisiva per regolare il buon funzionamento delle nostre interazioni sociali, la tendenza collaborativa, l’empatia e il benessere psicologico. Nell’ambito della cosiddetta ‘neuroetica’ (l’etica che si lascia ispirare dalle scoperte neuroscientifiche) c’è chi si è chiesto se non dovessimo sottoporci tutti a trattamenti farmacologici a base di ossitocina per migliorare le nostre qualità morali, un’idea che fino a qualche tempo fa mi lasciava perplesso ma che da quando toccarsi è diventato sinonimo di mancanza di senso civico forse sarà il caso di riprendere in considerazione.

Dell’importanza decisiva del contatto fisico con altri mammiferi per il buon funzionamento del nostro cervello e dunque per una vita sana non si è parlato mai negli ultimi mesi. Dalle dichiarazioni di politici, insegnanti e virologi sembra che si tratti di un lusso a cui possiamo permetterci di rinunciare, da buoni mammiferi-cittadini adulti, “per riabbracciarci dopo più forte di prima” come sentenziava poeticamente qualche mese fa un politico di cui non ricordo il nome (o forse mi sto già impegnando per cercare di dimenticarlo, non so). Ma intanto che succede nel nostro cervello mentre non ci abbracciamo? Sarebbe importante, che so, sottoporre al distanziamento sociale dei topi di laboratorio per diversi mesi, come è successo a noi, monitorando costantemente il loro cervello e provando a valutare le conseguenze che questo comportamento radicalmente incompatibile con l’essere mammiferi comporta per la loro salute. Provate a pensare per un attimo se, invece di chiederci di stare lontani, le regole anti-COVID avessero previso che respirassimo soltanto ogni due minuti, onde limitare l’emissione di droplet (altro termine, insieme alle “rime buccali” e quant’altro, che mi impegnerò attivamente a dimenticare non appena possibile). Due minuti di respiro e due di apnea. Avremmo accettato di farlo? Sarebbe stato possibile? Come saremmo ridotti adesso? Può darsi che per un mammifero limitare il contatto fisico con altri esseri della propria specie sia altrettanto deleterio che respirare a intervalli di due minuti? Il danno avverrebbe però a livello cerebrale e neurologico, non comportando un disagio immediatamente percepibile e dunque rimanendo probabilmente nascosto per lungo tempo. In sintesi: se per sconfiggere il COVID devo iniziare ad agire in maniera opposta a quanto esige il mio essere mammifero, voglio almeno che qualcuno mi dica sinceramente quanto acciaccato ne uscirò, o per lo meno cominci a studiare il problema.

Sentivo ieri (sabato 29/08) su RaiNews un’insegnante-giornalista-scrittrice invitata a commentare i recenti (disastrosi) provvedimenti per la riapertura delle scuole proclamare orgogliosa che lei ormai del contatto fisico non avvertiva più il bisogno. Non aveva che parole di rimprovero per gli adolescenti che “non fanno che toccarsi” e proprio non ce la fanno a fare altrimenti, sostenendo che sarebbe stato molto meglio continuare per un po’ a fare lezione online e reprimere duramente i figli toccaccioni. Mi domandavo, en passant, che opinione avesse l’insegnante-giornalista-scrittrice degli antichi greci, che addirittura teorizzavano che il rapporto educativo si fondasse sulla promiscuità sessuale tra insegnante e discendo… L’apoteosi dell’assurdo è stata raggiunta quando l’insegnante-giornalista-scrittrice ha sostenuto che non dovremmo più parlare di distanziamento sociale ma “soltanto” di distanziamento fisico, perché invece a livello sociale siamo tutti vicinissimi e solidali. Si vede che la signora non ha idea di essere un mammifero. E si vede che il COVID è forse la perfida rivincita di quello gnosticismo odiatore del corpo che l’Occidente credeva di aver debellato dando alle fiamme le città degli Albigesi…

Ma torniamo sul punto. Il punto è che per i mammiferi la prossimità fisica non è un optional, né un lusso che mammiferi adulti e inurbati possono lasciare da parte per un po’. Si tratta invece di un tratto essenziale di quello che siamo e di un fattore imprescindibile della nostra salute fisica e mentale. Costringendoci a mantenere le distanze dai nostri simili stiamo andando a intervenire su un aspetto profondissimo del nostro essere, avventurandoci in una terra incognita dal punto di vista biologico ed evolutivo. Non dovremmo esigere lo stesso rigore e la stessa cautela scientifica che ci aspettiamo da chi lavora sul vaccino anche per valutare l’impatto fisico a medio e lungo termine del distanziamento sociale? Che fine fanno mammiferi che per mesi agiscono sistematicamente contro la propria natura? Il gioco vale davvero la candela?

* “Mammare” in latino significa sia succhiare il latte, sia allattare.

TAG: coronavirus, Cultura, Filosofia
CAT: costumi sociali, Filosofia

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