Disincanto e amarezza nei “Racconti romani” di Moravia

19 Agosto 2022

Tra le tante ingiustizie di cui si macchia il mondo letterario ed editoriale italiano nei riguardi dei suoi protagonisti, una delle più eclatanti è secondo me la sottovalutazione e il conseguente oblio dell’opera di Alberto Moravia, la cui narrativa viene ormai riproposta solo in ebook, decretandone così la sostanziale irrilevanza. Invece, a chi volesse riscoprirne originalità, intelligenza e maestria di scrittura, basterebbe rileggere la prima produzione, a partire da quella di impianto neorealista, e in particolare dai Racconti romani.

Pubblicata nel 1954, la raccolta di settanta novelle – uscite negli anni precedenti sul Corriere della Sera -, narra le vicende di singoli individui e famiglie provenienti da diversi ceti sociali, ma per lo più dalla piccola borghesia, dal proletariato e dal sottoproletariato della capitale. In un linguaggio colloquiale, dimesso e reso più immediato da frequenti dialettalismi, Moravia offriva ai lettori un quadro disincantato delle vicissitudini occorse ai vari personaggi, nel periodo di storia che segnava il trapasso tra la fine del secondo conflitto mondiale e la ricostruzione del paese, quindi tra depressione, umiliazione, senso di sconfitta da un lato e speranza, volontà di ripresa, ottimismo dall’altro.

Il palcoscenico su cui si recita questa commedia umana è sia la Roma delle periferie, delle baracche e delle campagne, sia quella del centro trafficato e vivace, dei monumenti famosi, delle abitazioni e dei negozi dal decoro dignitoso, benché privo di sfarzo. Le voci narranti appartengono nella quasi totalità a giovani uomini, scapoli o maritati con prole, travolti da difficoltà economiche, malattie, tragedie o dissidi tra parenti, desiderosi di riscatto sociale ma contemporaneamente rassegnati al loro fallimento lavorativo ed esistenziale: affidano sé stessi alla sorte, sperando in improbabili colpi di fortuna in grado di mutare in meglio il loro destino.

Operai inquieti e rabbiosi (La rovina dell’umanità), figli e padri insofferenti degli impegni parentali (Scherzi del caldo), negozianti afflitti dai capricci delle mogli (Sciupone), ragazze desiderose di sfondare nel mondo del cinema (Il provino), piccoli truffatori che tentano di arricchirsi con ingenui sotterfugi (Impataccato), sposi in miseria ridotti a rubare oggetti sacri (Ladri in chiesa), ex commilitoni affamati pronti a spolparsi a vicenda (Romolo e Remo). Un piccolo capolavoro, formalmente calibrato in un crescendo irresistibile di comicità e irritazione, risulta essere il monologo di Non approfondire, in cui un marito devotissimo ma assillante e prevaricatore nei confronti della moglie, si tormenta chiedendosi il motivo dell’abbandono di lei.

Moravia descrive le situazioni mortificanti patite dai suoi personaggi con uno sguardo lucido, privo di qualsiasi retorica o falso pietismo, e semmai con amara ironia, rimanendo essenziale e oggettivo nell’illustrare le cause degli avvenimenti, e gli effetti fallimentari e controproducenti delle azioni messe in campo.

Il critico Emilio Cecchi diede di questi racconti un giudizio memorabile: “Una quantità di personaggi che se ne stanno chiusi e saldati in una elementare, inarticolata realtà; in una sfera, in una categoria premorale, che crocianamente si direbbe la categoria dell’utile, dell’economico, della nuda e cruda vitalità”. Anche il nostro cinema seppe abilmente sfruttare gli spunti offerti dalla penna moraviana, attraverso le pellicole di Monicelli, Bolognini, Blasetti, Franciolini.

 

ALBERTO MORAVIA, RACCONTI ROMANI – BOMPIANI, MILANO 2001, p. 408

 

 

 

 

 

TAG:
CAT: costumi sociali, Letteratura

Un commento

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  1. dino-villatico 2 anni fa

    Brava Alida Airaghi! Il silenzio calato su Moravia – e su Brancati, su Bassani, interessante anche come poeta, perfino su Calvino – è indecente. Come se poi il livello, bassissimo, dell’attuale letteratura italiana, gliene desse motivo. Rileggerli, invece, quei narratori, La Capria, o drammaturghi come Patroni Griffi, ci farebbero riflettere su che cosa è la letteratura: uno sguardo lucido sulla realtà. O come scriveva Kantor, non la descrizione della realtà, la letteratura non descrive, risponde. Del resto, una società che non sa più guardare sé stessa non può vantare letteratura degna di questo nome.

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