Ventidue anni fa faceva la sua comparsa nelle librerie Jack Frusciante è uscito dal gruppo (nuovamente in libreria da pochi giorni negli Oscar Mondadori), un romanzo che avrebbe segnato una generazione di adolescenti grazie ad una narrazione fresca ed entusiasmante dell’allora ventenne Enrico Brizzi. Negli anni successivi Brizzi non avrebbe mai più ripetuto il successo e l’exploit di quel romanzo che evidentemente scrisse in quello che si può definire senza troppi tentennamenti uno stato di grazia. Il libro visse ben oltre i propri confini letterari divenendo sangue nelle vene del sentire pubblico e sociale, generando quello che allora fu un fenomeno condiviso oltre che letto da tutti i coetanei dell’autore. Nel tempo Enrico Brizzi ha sviluppato un percorso letterario denso e non banale dentro al quale oggi Jack Frusciante appare più che altro come il ricordo sparuto della giovinezza che fu, l’insensato tempo dentro al quale ogni cosa è resa possibile.
Jack Frusciante è invecchiato e con lui sono invecchiati i suoi lettori: un romanzo generazionale, ma non per tutte le generazioni e al punto da non riuscire ad entrare in quel pantheon magico che ospita i romanzi che hanno rappresentato un periodo vivido e intenso di una generazione allora alla piega finale del Novecento. Jack Frusciante è oggi più che un libro e più ancora che un feticcio, un vecchio zio che non si va più a trovare, un romanzo che non ha più molto senso riprendere in mano; i suoi lettori sono andati oltre (del resto come anche il suo autore).
Qualcuno ha smesso di leggere, qualcuno si è dimenticato di averlo comprato e qualcun altro è ancora in cerca di quel brivido, di quel taglio che illumina il volto quando aprendo le pagine di un libro si inaugura un collegamento diretto con il mondo e con se stessi. Ed è singolare come oggi a questo allegro volumetto vengano preferiti altri romanzi “generazionali” oggi riletti in chiave giovanilista dai ventenni degli anni Novanta.
Primo fra tutti è il sempiterno Pier Vittorio Tondelli che ciclicamente ritorna sui comodini, e tra le mani di chi ha ancora bisogno di ritrovarsi e di divertirsi attorno a quella che fu l’epica di Altri libertini e di Pao Pao. Si assiste così ad una sorta di resa, di consegna delle armi. Un vero e proprio rifiuto d’identità intellettuale e generazionale, insomma sicuramente lo zio Jack non è un esempio di grande intelligenza, ma ripiegare su papà Pier non può essere certo una soluzione.
Pier Vittorio Tondelli ha senza ombra di dubbio alcuna segnato la letteratura italiana, ma lo ha fatto molto di più con il suo lavoro culturale che con le sue qualità letterarie dove per certi versi ha messo in atto una forma di vera e propria gentrificazione della letteratura italiana accelerando quel movimento carsico che l’ha trasformata ad oggi – prevalentemente – in una sorta di provincia periferica della letteratura americana. È imperdonabile infatti a Tondelli l’uso spregiudicato e a tratti banale di un linguaggio spesso artefatto mutuato senza troppo senso dal gergo e dalla letteratura americana.
Sarebbe quindi auspicabile una forma di emancipazione dai tratti anticonformisti eppure tanto rassicuranti della letteratura di Tondelli e se questo si inizia ad avvertire in alcuni romanzi che piano piano stanno iniziando a riseminare un nuovo discorso nella letteratura italiana, rimane invece saldo il fraintendimento attorno alla centralità dell’autore di Rimini.
Oggi la linea più interessante della letteratura italiana è quella che recupera la lezione di maestri come Gianni Celati e per certi versi Antonio Tabucchi, o anche quella che si coagula attorno ad autori che invece hanno saputo ribaltare i vecchi paradigmi come Giuseppe Genna e in maniera diversa, ma non da meno Giulio Mozzi. Pier Vittorio Tondelli tradì la lezione di Gianni Celati e come in ogni tradimento ci fu certamente del genio, ma oggi è impossibile riconoscere alla sua letteratura un primato e tanto meno una necessità nonostante l’evidente vitalità e seduttività dei suoi libri (cosa che ad esempio ha perso nel tempo il pur bellissimo Boccalone di Enrico Palandri).
Tondelli risulta oggi, in particolare con l’epico mainstream di Rimini, una sorta di allievo mutante di Umberto Eco, un abile costruttore di rassicuranti sogni lisergici privi però di voce autonoma. Se la generazione dei trenta quarantenni ritorna a Tondelli non è per un gusto letterario o per ritrovare gli stimoli per una rivolta per lo meno interiore, ma per una forma di sentimentalismo maturato attorno a quell’epica (spesso nefasta) che ha fatto degli anni Settanta una lunga carrellata pubblicitaria.
Quasi certamente, anzi certamente Jack Frusciante non fu l’occasione giusta, il testo ideale per tentare una fuga in avanti, ma il terrore per l’abisso non giustifica il ritorno alla casa del padre che altro non è che il rifiuto di una vitalità e del proprio ruolo culturale e sociale; oltre che una terrificante mimesi autoreferenziale e suicida.
La sensazione è che se Pier Vittorio Tondelli ha acquisito ormai uno status di classico contemporaneo che in linea di massima gli si addice, i suoi lettori invece peggiorano di generazione in generazione perpetuando quella sorta di mistica del ritorno senza nemmeno aver mai tentato o forse voluto uccidere il padre. Lo scollamento risulta così sociale e determinante in un paese che ha quasi del tutto perso la propria lingua e che ha trasformato contestualmente la propria storia in un lungo piano sequenza privo di riferimenti che non siano figurine adesive da incollare o staccare a piacimento.
La generazione nata nel 1994 compie ventidue anni schiacciata tra i tomi di Anna Todd e scaffali ricolmi di saghe fantasy, eppure sarà la leggerezza fraintesa di Pier Vittorio Tondelli a dare il colpo letale rischiando di far perdere l’appuntamento con i sogni e con i desideri. Meglio uscire dal gruppo e inseguire Donald Barthelme, Thomas Ligotti o gli stupefacenti Martin Amis o David Peace (citando dove l’orizzonte offre) che farsi rinchiudere nella malinconica andropausa dei padri. È sempre meglio uno zio tonto che un padre anziano.
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