La milanesità dei non milanesi di Milano
Milano è una mini-metropoli che con le capitali europee ha in comune non l’estensione ma la eterogeneità della composizione anagrafica, cioè il fatto che, come Londra, Parigi, Dublino, è polo di attrazione prevalente per i nativi di altre regioni della stesso paese. Limitiamoci a questi.
Non rappresento né io né le mie cerchie di amici un campione statistico. Tuttavia l’origine familiare dei milanesi che conosco è nella quasi totalità non milanese. Queste persone – milanesi di prima o plurima generazione – risiedono, votano ma non hanno nel dna la antica, virtuosa storia del riformismo ambrosiano illuminato, colto, aperto. Non hanno nemmeno il civismo, la resilienza, il decoro che identifica con unanime riconoscimento la specificità milanese, che è un po’ l’istintiva attitudine urbana diffusa a fare le cose per bene. La Milano contemporanea racconta la risalita dal declino, la rinascita, le nuove energie creative, le sensibilità culturali, le innovazioni architettoniche. Tutto questo è vero, lo ha fatto Milano, l’hanno fatto i milanesi. Ma chi sono sti milanesi?
Milano è una stratificazione successiva e via via più estesa di extra-milanesi innestati a Milano.
Persone con una storia diversa dalla codificazione retorica della storia milanese; persone con un’origine urbana spesso civicamente meno blindata di quella su cui può far leva il milanese da cartolina. Queste persone hanno delle loro peculiarità virtuose, ma diverse da quelle dei milanesi. Da dove derivano allora le virtù civiche, culturali di cui Milano va giustamente così fiera?
Beppe Sala, favorito alle primarie Pd e probabile vincitore anche delle secondarie, ha raccontato un progetto amministrativo che fa esplicitamente leva sul progressismo delle tradizioni culturali ambrosiane, riconoscendo nel “Noi” che lo rappresenta la matrice strategica di un disegno generale di sviluppo che punta molto all’immagine, al racconto di sé. I milanesi ne sono protagonisti. Non è peregrino dunque interrogarsi sulla natura reale, non retorica, di questa milanesità che si fa addirittura programma politico.
La domanda è: Milano è Milano perché assimila (civilizza il terrone) o perché declina con armonia le diversità (lascia irrompere l’anomalia creativa nello schemino sperimentato)? Terza ipotesi è che sia entrambe le cose.
Io non lo so, anzi chiedo. Una cosa, da civilizzata non assimilata, mi sento però di poterla dire: Milano è Milano anche perché, nonostante tutta l’apertura, la contaminazione, il confronto con sensibilità e forme mentali diverse, continua a non avere per niente il senso dell’auto-ironia.
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