Luca Traini: uno di noi o tutti noi? Come siamo diventati ciò che siamo

31 Ottobre 2018

Qualche volta occorrono dei libri per trovare il lessico del proprio tempo.

L‘uomo bianco (Feltrinelli) di Ezio Mauro, prima ancora che un saggio di ricerca antropologica, travestito di indagine di cronaca di un grande giornalista, è la rivincita del libro in un tempo in cui il senso comune dice che il libro è morto.

Non fosse che per questo ci sarebbe da esultare per questo prova di orgoglio della scrittura. Come spesso capita ai libri che pesano, questo avviene toccando un dato che ci distrae da questo aspetto – rilevante – e ci fa concentrare l’attenzione sul tema e non sullo strumento.

Il 22 luglio 2011  italiano si chiama 3 febbraio 2018. Il 22 luglio 2011  è il giorno in cui Anders Breivik [come ha ricostruito Åsne Seierstad], inizia la sua strage a Oslo e poi la conclude a Utoya. E’ un evento di cui in Italia abbiamo parlato poco ma che dice molto, non solo della Norvegia di allora e quella di ora, ma soprattutto dice di noi, oggi.

Anders Breivik riempie una casella interessante nella fenomenologia del “dispensatore di morte” nella nostra contemporaneità. A differenza dell’individuo bomba che abbiamo globalmente conosciuto con l’11 settembre 2001, Breivik incarna l’idea del “soldato politico” più che quella del martire.

Non solo. Il suo comportamento è diverso da quelle di chi nel corso del Novecento ha compiuto atti clamorosi per chiedere il ritorno alla tradizione. Breivik non “si sacrifica”, come Yuko Mishima, per esempio. Fa l’angelo sterminatore, e dà forma e immagine consolidata a una figura di militante di estrema destra che chiama a “difesa della tradizione” che fa emuli.

Tema di cultura politica non marginale, presente nel cuore profondo di una parte di Europa e che il Il 3 febbraio 2018 approda anche da noi , in Italia.

A dir la verità un primo assaggio noi lo avevamo già avuto il 13 dicembre 2011 quando Gianluca Casseri uccide per le strade di Firenze Diop Mor e Modou Samb e ferisce Moustapha Dieng, 34 anni, Sougou Mor 32 anni, e Mbenghe Cheike. Ma non era ancora il tempo.

Quel tempo è arrivato il 3 febbraio 2018.

Il 3 febbraio 2018, per chi non avesse memoria, è  il giorno in cui Luca Traini attraversa le strade di Macerata e spara. A differenza di  Gianluca Casseri che si toglie la vita, appunto ricalcando il gesto di Mishima, Luca Traini, come Breivik,  non “si sacrifica”. Fa l’angelo sterminatore. Più poeticamente pensa di essere «in missione per conto di Dio».

Da allora è iniziato un nuovo tempo in Italia: politico,  culturale, emozionale, Soprattutto è cambiato il linguaggio pubblico.

Lì sono avvenute delle trasformazioni – prima ancora che  sancite da leggi – comportamentali, antropologiche, linguistiche (ovvero nel linguaggio collettivo di tutti noi), ovvero: politiche.

Quelle trasformazioni sono state rapide e  automatiche. A molti sono sembrate naturali, ma hanno varie cause, come ha ricordato Maurizio Molinari . La velocità, non significa che ciò che ci troviamo a vivere sia superficiale, passeggero, o effetto di un’incomprensione.

Per questo le cose vanno chiamate per nome, descritte nella loro essenza e poi misurate. Questo è ciò che fa Ezio Mauro in L’uomo bianco.

Forse niente è più calzante di quella metamorfosi della figura del bambino nella novella di Andersen Il vestito del re. Improvvisamente il linguaggio pubblico ammesso, accettato, altra cosa è se legittimato da chi governa – è diventato un altro e ciò che nel profondo era detto talora in silenzio, sottovoce, comunque con cautela, pensando di dover stare attenti a chi si aveva accanto, è diventato dicibile, esternabile, dichiarabile, e non esecrabile. E dunque ammesso, e perciò, legittimo. Anzi ancora di più: vero. Solo che non sopporta di essere disvelato. Così a differenza della novella di Andersen, il fatto che una cosa sia detta non serve a sciogliere il clima di sospensione. Perché le cose si possono fare, l’odio si può provare, ma non se ne deve parlare.

Luca Traini ha commesso un atto delittuoso, ma ha delle attenuanti, dice una parte consistente, non so se già maggioritaria del nostro paese. Come tale è solo per una formalità che sta in galera. In realtà avrebbe diritto al riconoscimento delle attenuanti. Insomma come si sarebbe detto un tempo per altri, e adattando l’espressione, è “un camerata che ha sbagliato”. Anzi no:  “un camerata che ha esagerato”. Vogliamo punirlo per questo?

L’uomo bianco di Ezio Mauro racconta , anzi – meglio – ricostruisce – il meccanismo che si è messo in moto di allora. Da quel giorno, sostiene Ezio Mauro, qualcosa di radicalmente profondo è cambiato nel nostro paese, nel nostro linguaggio, e anche nel nostro profondo sentimento.

Quel sentimento è possibile guardarlo se si scava profondamente in quell’istante. Scavare significa non solo ricostruire il dopo, ma comprendere la genealogia di quell’istante e dunque andare indietro, nel tempo.

E’ un meccanismo a cui la tragedia nella Grecia antica ha fornito gli statuti. Si consideri Edipo Re: la scena centrale non è quella dell’atto dell’uccisione di Laerte da parte d Edipo, ma quella della rivelazione lenta di un particolare, che si innesta nello scorrere in avanti nel tempo, ma che proprio per il carattere disvelativo di ciò che racconta, contemporaneamente ogni elemento nuovo riporta la storia di un passo indietro rispetto alla scena del delitto.

L’uomo bianco di Ezio Mauro è un libro a cui non si arriva indifferenti e da cui si esce ancor meno indifferenti.

Per molti motivi, ma soprattutto per uno: al centro di quel libro c’è l’Italia di oggi e forse c’è un resoconto senza sconti su ciò che noi, italiani, oggi siamo.

Dopo il 3 febbraio 2018 si possono dire molte parole che fino a quel momento magari pronunciavamo sottovoce,  – «Negro di merda», per esempio. Ma non è l’unica. Insieme ce ne sono altre. Il linguaggio da allora si è incattivito, profondamente. E il tempo ha subito un’accelerazione. È aumentata la rabbia. È certamente aumentata l’insofferenza, è diventato virale un immaginario complottista, si è innalzato il fattore di vittimismo e di autovittimizzazione.

Senza il dato, che fa da discrimine, quello della violenza, ma che è iscritto nella storia italiana,  si potrebbe dire che tutte queste componenti hanno costituito il codice culturale e mentale dell’Italiano così come si è espresso il sentimento nazionale nel corso del lungo Ottocento che oi si riversa nel Novecento.

Tutti quegli elementi – l’insofferenza, immaginario complottista, vittimismo, auto vittimizzazione – sono un segmento essenziale dell’autonarrazione della nazione, per certi aspetti fanno parte del codice culturale dell’ «Italiano», così come molti anni fa ce l’ha consegnato Giulio Bollati nel suo L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (Einaudi).

Un quadro quello che dipinge Bollati che non è inventato,ma che recupera e dà ordine alle molte immagini, convinzioni, che si accumulano nel linguaggio comune nel corso del secolo in cui l’Italiano si fonda (quello compreso tra il secondo i riformatori italiani di metà ‘700 e il compimento della ideologia nazionale alla vigilia della Prima guerra mondiale che poi trova nel fascismo italiano la sua retorica.

Un tema che vive del doppio registro (e che infatti nella scena di Macerata  ritorna, e che poi si manifesta nel linguaggio e nell’immaginario che da allora costituiscono la nostra quotidianità): quello della sensazione di essere vittime e che quello del diritto alla rivolta, a partire da quella condizione di vittime (o del raccontarsi come vittime).

Più esplicitamente: si è ciò che si subisce; si è ciò che abbiamo perduto, ciò che ci hanno tolto e che occorre recuperare per riequilibrare il conto. Una condizione, non sanabile, che vive del rancore, e della ricerca di soddisfare quella sensazione (che diviene convinzione) del diritto al risarcimento.

Dentro ala scena che vede Luca Traini protagonista, c’è un pezzo rilevante di Italia che ha sentito di essere rappresentata e ha sentito, in maniera irreversibile, che quella scena era il momento atteso non solo di dire, ma anche fare  qualcosa che fino a quel momento apparteneva alla sfera dell’interdetto, del non consentito, trattenuto più da una mentalità del «perbene» che non da quella del  «politicamente corretto».

Lì si è inaugurata una stagione che è difficile valutare oggi quanto sarà lunga. Non è un’invenzione, né un incidente di percorso. E’ il risultato di un lungo percorso dove sottotraccia stanno molti elementi di quella mentalità che Ezio Mauro fotografa con precisione e che ci restituisce con una grande capacità di scrittura.

TAG: Anders Breivik, Åsne Seierstad, Ezio Mauro, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Luca Traini, Maurizio Molinari
CAT: Criminalità

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