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Arte

Per uno chef è importante nutrirsi di cultura

di Giovanni Calamari
18 Novembre 2014

Stamane ho letto un’intervista all’auctoritas della cucina italiana, Gualtiero Marchesi. Quest’uomo compirà 85 anni nell’anno di Expo, è il cuoco italiano più noto al mondo, non ha fama di essere un comunicatore, è polemico, burbero, snob ma certamente il suo lavoro lo sa far bene considerato che molti chef italiani noti sono stati suoi allievi, anche quelli che in tv creano miraggi gastronomici per il grande pubblico. Marchesi l’insegnamento ce l’ha nel sangue, prima la scuola a Colorno nei pressi di Parma ora l’Accademia dei cuochi a Milano. Cracco, Lopriore, Oldani, Leeman, Berton, Crippa, Canzian, per citarne alcuni, sono tutti suoi discepoli ma quando gli chiedono un’opinione, ad esempio su Berton, lui risponde così: «Un grande pignolo, ordinato, poi della cucina non posso dire: quando lavorava da me faceva i miei piatti». Su Cracco: «Alla festa per i miei ottant’anni ho mangiato da lui ma non mi ricordo come ho mangiato…». Su Daniel Canzian: «era cuoco da me al ristorante Marchesino: un veneto, sorridente, che però da un giorno all’altro mi piantò per aprire un ristorante suo qui a Milano. Senza mettermene a parte in anticipo». Oggi il Maestro non fa più il cuoco ma il compositore, offre un modello da seguire, non prova i piatti, li pensa e li realizza solo quando è certo della loro riuscita. L’esposizione mediatica degli ultimi anni ha trasformato gli chef italiani in divinità, i loro piatti sono sempre perfetti e indiscutibili. Un elenco sommario di “chefstar” per dare l’idea: Cannavacciuolo, Cracco, Barbieri, Rugiati, Oldani, La Mantia, Scabin, Borghese, Knam, mi fermo? I numeri si fanno impressionanti quando si parla di aspiranti chef nelle selezioni dei talent show, a migliaia spadellano negli studi televisivi, preparare e impiattare un’anatra all’arancia in tempi compressi è diventato un mantra, il cibo-spettacolo, il cibo nazional-popolare non nell’accezione gramsciana ma in quella pippobaudiana. Ritorno a Marchesi. Uomo colto, amante della musica classica e operistica, cita Schönberg e Mahler , ha sposato una musicista, i figli sono musicisti, i suoi piatti prendono ispirazione dalla cucina giapponese e dal mondo dell’arte, sostiene che oggi in cucina ci sia molta tecnica ma che molti chef ci arrivino senza sapere il perché, «invece il cuoco fa chimica intuitiva, deve capire perché ci vuole un rapporto preciso tra il fuoco, il tipo e il volume dell’ingrediente, lo spessore e il diametro della padella». Poco importa se anche lui nel corso della sua carriera illuminata è inciampato tre anni fa in un’operazione umiliante e inspiegabile con la catena McDonald’s, creando il panino McItaly Vivace (bacon, spinaci saltati, cipolla marinata, hamburger bovino e maionese con grani di senape, a 4,70 euro), McItaly Adagio (pane ricoperto di mandorle a pezzetti, mousse di melanzane, pomodori a fette, melanzane in agrodolce, hamburger bovino e ricotta salata, a 4,70 euro), e il pregiato Minuetto (una fetta di panettone con salsa al caffe’ e una crema di mascarpone con canditi e mandorle, a 2,50 euro scontata, a 2 euro se aggiunta al menu). Marchesi è un uomo raffinato e intelligente, lo si evince da come risponde al giornalista che gli pone la domanda su chi gli somiglia: « Credo di essere unico. Perché ho una preparazione di vita e culturale anomala». Si sbaglia. Non è unico. Un altro uomo colto è Massimo Bottura, tre stelle Michelin, terzo nella classifica dei cinquanta migliori ristoranti del mondo; il suo ristorante a Modena si chiama Osteria Francescana. Ogni sua ispirazione nasce da una riflessione su quadro, da un’espressione artistica alla quale lui dona sostanza e la rielabora nel piatto. Marchesi e Bottura sono artisti (non artigiani) conosciuti e ammirati in tutto il mondo perché sono in grado di lasciare una traccia nella storia sociale dell’umanità. Lo fanno con le loro idee, la loro creatività, il loro pensiero e la loro cucina; offrono a noi la possibilità di fare un’esperienza sensoriale ed intellettuale. Un piatto unisce culture diverse, produce conoscenza, fa evolvere. Per uno chef, nutrirsi di cultura è importante per la mente e ha un impatto emotivo, sociale, economico su chi assaggia le sue creazioni. Nelle scuole alberghiere dovrebbero istituire l’insegnamento dell’arte, della letteratura e della grammatica italiana, l’uso del congiuntivo in cucina è pressoché sconosciuto. Il divin Marchesi spedisce gli alunni della scuola di Colorno nei musei, alle mostre d’arte, ai concerti. «Il bello è il buono: un piatto mal combinato non può essere buono». Expo sarà l’occasione per educare gli individui alla consapevolezza del cibo, al rispetto per la materia prima e al nutrimento del gusto. Temo di no. Temo che la cultura sarà travolta dal fast business, dal marketing di matrice terroristica, nasceranno ristoranti per ingolfare intestini di turisti inconsapevoli, una grande cloaca dove convogliare illusioni gastronomiche e questo accadrà perchè la maggior parte degli chef prigionieri della loro immagine specchiata nelle padelle di rame ignorano di essere responsabili del progresso sociale del proprio Paese. Occorre formare una nuova generazione di cuochi consapevoli, la cultura della bellezza deve essere parte integrante del talento, del rigore e del metodo. I Maestri in grado di formare questa nuova generazione di talenti sono pochi e non eterni.

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