Cinema

La città di pianura. Aspettando, berrò.

17 Ottobre 2025

L’hai vissuto anche tu, anni e anni fa, quando avevi un fegato gagliardo e il palloncino non era uno spauracchio: guidare con un occhio chiuso, provando a inquadrare la strada, poi decidere, saggiamente, di fermarsi. E addormentarsi sul sedile.

Il film Le città di pianura comincia da qui. Dal sonnellino che rimette in bolla i due protagonisti. Carlobianco, tuttoattaccato, e Doriano, ripartono all’inseguimento del tempo perduto: lo stringere il prossimo bicchiere significa fermarlo, quel tempo; significa prendere tempo e tenere la luce ancora accesa. E ti ritrovi in un Veneto che non ti aspetti, sguaiato e un po’ punk, e ti specchi nello sguardo stralunato e indagatore di un Sergio Romano enorme, che l’amico Doriano (Pierpaolo Capovilla, voluto per essere se stesso, una delle tante intuizioni del regista Sossai) chiama Charlie White. Hanno poco da spartire con l’umanità che incrociano, per forma, età, ambizioni, eppure in ogni incontro estemporaneo portano entusiasmo, quello dei vinti, quello di chi ha seppellito l’ascia, i rancori, le ansie di prestazione, e vuole solo scaldare, incitare, dissacrare, anche fottere, con dolcezza: e intanto eleva, a grandezza umana. E le risate! Samuel Beckett avrebbe dovuto essere qui, in sala, a vedere quanto i suoi Vladimiro ed Estragone abbiano messo radici lunghe. Godot è un bicchiere da riempire, ma non di succo di frutta (a parte l’uva). Godot è il segreto del mondo, evaporato come schiuma di una birra media. Godot è un amico che non sa tornare.

È la giovinezza, che non passa. L’urgenza, senza una meta.

“Una voglia che va al di là della sete”: i nostri eroi sbagliati si ubriacano per non farsi sopraffare dalla ragione. La ragione è una lettera caduta che lascia sdentata l’insegna Da Mary, il luogo della gioia: la lumaca cucinata perfetta, con burro e aglio, dove l’aglio non sovrasta la delicatezza del mollusco. Per Charlie e Dori, gli spigoli del reale non devono spegnere il languore del ricordo.

Ma non voglio fare il recensore, il mio è un impulso, un bisogno, di abbracciare al ragazzo di 38 anni che ha scritto, voluto e girato questo film, nel quale forse ha prestato il suo sguardo a Giulio, il giovane architetto che vive con il freno a mano un po’ tirato e che finisce per farsi trascinare in questo zigzagare di pianura, desolata e resistente. Con questi due stagionati e instancabili ubriaconi. E accettare il vuoto a perdere di questo viaggio, per riempirlo di esperienze che non avrebbe mai architettato. Fino a trovare la forza di prendere il treno che lo porterà dalla ragazza che gli riempie l’inquadratura, colei al quale aveva detto “Sarà per un’altra volta”, quando si era ritirato dalla sua festa di laurea perché era tardi e doveva andare a dormire. ”Non esiste un’altra volta!”, gli aveva riposto lei.

Invece esiste. Come esiste un altro bicchiere.

I due che sfrecciano di fianco al vagone in corsa, sporgendosi dal finestrino, paonazzi, urlando a Giulio tutto il loro tifo, la loro vittoria, è una scena che mi ha fermentato le budella, che ha scardinato la penombra della sala. Ed è arrivata fino alla commozione.

Ai vecchi capita, di avere il cuore ubriaco anche da sobri.

 

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