Cinema
Il grande commediografo italiano raccontato da Martone e Servillo
“Sbaglia di due giorni-sospirò il Cappellaio- Te l’avevo detto che il burro non andava bene!
-Era burro della miglior qualità- rispose la Lepre Marzolina
– Si, ma ci devono essere entrate delle briciole, insieme – brontolò il Cappellaio-, non devi mettercelo col coltello del pane”
Magistrale, commovente, irritante, con un’ilarità che sottende tutto “Qui Rido Io”. Lo straordinario Mario Martone ha presentato alla Mostra del Cinema di Venezia la pellicola in cui l’eccellente Servillo interpreta un notevole Eduardo Scarpetta.
La prima inquadratura si apre sulla scena del teatro in cui si sta rappresentando “Miseria e Nobiltà” con la famosa scena della tavola imbandita e i maccheroni mangiati in piedi sul tavolo, di cui i personaggi si riempiono le tasche.
Scarpetta è un padre padrone, padre di non si sa quanti figli, l’unico che ha avuto con la moglie, Rosa, è Vincenzo, che nonostante sia il primo a lavorare col padre, vorrebbe evolversi da questa figura ingombrante. Si occupa anche di Cabaret, e viene persino scritturato in un film al cinematografo, suscitando le ire del padre per cui solo il teatro è vita. In realtà la casa di Scarpetta è un teatro in cui le vite dei personaggi si dispiegano, tutte amanti e figli di Eduardo. Tranne i tre figli dichiarati, gli altri lo chiamano zio, tra cui quelli che diventeranno i famosi Eduardo, Titina e Peppino de Filippo, avuti con una nipote di Rosa, Luisa, e per cui Eduardo stravede.
Vive nello sfarzo, diverse scene si svolgono intorno alla tavola sapientemente imbandita, assicura ai membri della famiglia benessere, il prezzo da pagare è che si pieghino alla sua volontà. A Eduardo De Filippo, di cui subito intravede il talento, consegna manoscritti da ricopiare, ma lui oltre ai manoscritti, scrive già da piccolo commedie, e con la sorella Titina trascorrono il tempo libero dallo studio a recitare. Come Vincenzo, la sorella Titina e Eduardo calcano le scene prestissimo.
Contrariamente alla sua vita privata, la casa deve essere sempre pulita e Scarpetta pretende che le scope si buttino spesso, e non si lavino, come sostiene la moglie, perché accumulano polvere, quella polvere che oscurerebbe lo splendore, i fasti, e le feste che lui ama dare in segno del suo potere. Il suo gineceo è per lui quasi segno di orgoglio, tutti sanno, al punto che la moglie dice alle altre sue donne “ufficiali”, la nipote e la sorella, che la vergogna in casa loro non esiste.
In realtà, la pellicola è solo un pretesto per la messa in scena del teatro. Il rigore sulle tavole di legno e nella vita, l’impegno, la dedizione sono temi ricorrenti.
La vita privata, invece, di Eduardo Scarpetta sarà priva di dedizione, è la vita che lo consuma, lo accende dentro, lui incapace di tenere a bada gli impulsi della carne così come la sua ilarità. Il teatro è l’unica via di fuga, l’unica momento di verità e autenticità nelle vite di Eduardo De Filippo e la sorella, che sin da bambini consapevoli di non essere figli di un N. N. come risultava dalle pagelle, vivono una vita in cui la finzione di non capire è un compromesso con cui devono scendere a patto.
Dopo fasti e successi, inizia il declino di Eduardo Scarpetta che inizia col trionfo di “La Figlia di Jorio” di Gabriele D’ Annunzio, la quale attraversa l’ Italia e colpisce la sua fantasia quando va a vederlo in teatro, al punto che si reca a incontrarlo in Toscana e questi gli fa credere, falsamente, di concedergli l’autorizzazione di fare del suo copione un’esilarante parodia intitolata “Il figlio di Jorio”, che gioca sul capovolgimento caricaturale della trama e sulla trasformazione dei personaggi maschili in femminili e viceversa. L’ esito è una catastrofe, un fiasco senza precedenti nella carriera di Scarpetta. La Società italiana autori e editori, sobillati da D’Annunzio, presenta una querela per plagio e appropriazione indebita. I più grandi autori dell’epoca, Ferdinando Russo, Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Libero Bovio, pur avendo mangiato alla tavola di Edoardo Scarpetta, gli voltano le spalle.
Si dà il via al primo processo sul diritto d’autore.
Scarpetta è stanco e amareggiato, la sua tracotanza, arroganza, perdono di verve, sono anni di sofferenza morale, ma non demorde, all’occhio del pubblico apparirà sempre brillante. Ridendosela di gusto, fa costruire in quegli anni Villa Santarella nel punto più panoramico del Vomero che da poco era stato edificato con tante piccole ville Liberty dell’alta borghesia, che cominciavano a colonizzare “La Collina dei Broccoli”. Fa imprimere sulle mura della casa la scritta “Qui rido io”.
Unica voce in sua difesa fu quella di Benedetto Croce che gli fa capire che non esiste differenza tra le arti e che l’aulico e il colto hanno bisogno anche del popolare. Il processo diventa un palcoscenico dove Scarpetta offre irresistibili exploit teatrali, e tra risate e tripudi, dimostra, col suo libretto alla mano, che non c’è contraffazione perché nella riproduzione è assente lo spirito e l’intento.
È la vittoria di un approccio pop nell’arte, in cui l’autore, il genio dell’evoluzione della maschera di Pulcinella in quella di Felice Sciosciammocca, non si limita a fare una semplice traduzione letteraria, ma crea una commistione tra tragedia e commedia, tra commedia dell’arte e farsa napoletana. Scarpetta riprende il modello e lo fa esplodere in un tripudio di comicità e di situazioni esilarantissime.
Il teatro diventa un vero e proprio mestiere: “arte” associato a commedia si intende “professione”, e, nelle due ore abbondanti di visione, dimentichi di essere al cinema.
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