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Biennale Architettura 2025 Venezia. Tangenti allo spazio

28 Maggio 2025

Esattamente 30 anni fa, nel 1995, usciva la prima edizione di un libro capitale per l’architettura, S,M,L,XL, scritto da OMA, Rem Koolhaas e Bruce Mau, un compendio dei primi vent’anni dello studio di Rotterdam, costruito come un manuale di approccio all’architettura che avrebbe influenzato l’andamento della disciplina per i decenni a seguire.

Un libro/mattone capace di condurre il lettore negli anfratti più profondi (ma mai nascosti) dello studio OMA e di ri-narrare l’architettura attraverso spunti inediti o, meglio, portando in evidenza metodi investigati dai modernisti, dai radicali, dai post modern, sintetizzati e poi resi espliciti come nuova modalità di progettazione dell’architettura.

 

Un nuovo approccio che si basava, ottimisticamente, su un apparente allontanamento dall’architettura stessa, dalla sua storia fatta di evoluzione di forme, per entrare nel campo della valutazione scientifica, della narrazione matematica, esplicitata attraverso l’uso (ben visibile fin dalle primissime pagine del libro) di diagrammi.

 

Forse non è un caso che una delle mostre più interessanti, tra quelle visitabili in concomitanza con l’apertura della nuova edizione della Biennale di Architettura di Venezia, sia proprio quella curata da AMO/OMA alla Fondazione Prada, dal titolo Diagrams: una mostra che sembra voler parlare di architettura, ma esercitando quella volontà di distacco, quella visione laterale alla disciplina che aveva sorpreso trent’anni fa e che ancora oggi rimane come un elemento necessario nel processo del progetto: nelle stanze della Fondazione possiamo vedere l’architettura in potenza, quell’attimo prima che l’architetto tragga le sue conclusioni spaziali dopo lo studio dei parametri iniziali, comunicati attraverso i diagrammi, nelle loro “funzioni didattiche (spiegazione) o suggestive (persuasione)” – nelle parole di Rem Koolhaas-.

 

Forse non è un caso, allora, che la Biennale di Venezia, nel percorso espositivo curato da Carlo Ratti all’Arsenale, paia tornare a questa suggestione, a quell’attimo prima che appaia l’architettura.

Forse, ancora, dobbiamo fare un passo indietro, tornare alla dura presa di posizione di due anni prima, quando la curatrice Lesley Lokko decise di non mostrare l’architettura, di non mostrare progetti, di non mostrare i media che rappresentano l’architettura, perché architettura non può esistere se si fonda, come si è, in molti casi, fondata, sulla disuguaglianza e sullo sfruttamento.

La mostra di Lokko rappresentava uno spartiacque: la sua proposta di curatela impediva di tornare a mostrare una collezione di edifici, più o meno interessanti, ma richiedeva un’ulteriore riflessione, richiedeva di continuare a domandarsi come può esistere l’architettura in un mondo in frantumi, anche a causa dello sfruttamento delle risorse ambientali dovuto al comparto edilizio (senza scordare gli strascichi della pandemia, l’emergere di nuove guerre, l’instabile situazione politica).

 

Ratti non parla di architettura, nella sua mostra, forse partendo dai ragionamenti di Lokko, ma subito distaccandosene.

Koolhaas, in maniera estremamente raffinata, provava a spostare l’attenzione del processo ideativo formale su un piano altro, esterno al campo dell’architettura; Lokko si e ci chiedeva come resettare il campo dell’architettura: Ratti punta su tutto ciò che può essere, più o meno apparentemente, relazionato all’architettura, ma evitando, sistematicamente, di mostrare l’applicazione di questa lateralità allo spazio architettonico.

E, per rendere più esplicito questo approccio, invade le Corderie con una quantità di materiale espositivo che richiederebbe mesi di studio, forse anni, come ironicamente mostrato da Volume con Bursting Bubbles.

 

Mentre Lokko non voleva mostrare l’architettura, perché mancava una pratica etica da mettere in mostra, Ratti pare non voglia mostrare l’architettura perché questa etica sembra averla trovata nel processo tecnologico, nell’avventura dell’umanità contro la Natura, un’umanità che si può adattare, a prescindere da qualsiasi condizione (climatica, economica, sociale?).

 

La tecnologia, però, ad oggi ha due problemi irrisolti:

– o è stata ampiamente adottata nei processi edilizi, senza sconvolgerne l’essenza, o al più peggiorando la relazione uomo/ambiente (si vedano tutti i protocolli legati alla sostenibilità, che ricorrono unicamente a temi impiantistici per separare ermeticamente la soglia interno/esterno);

– o è, in nuce, altamente innovativa, ma non ha trovato ancora applicazioni tali da sconvolgere il linguaggio stesso dell’architettura.

 

Nel primo caso per banalità, nel secondo per mancanza di esempi, l’architettura non esiste.

 

Ci troviamo dunque di fronte ad una lateralità del campo che ci mostra, al contrario dei diagrammi di OMA, fortemente impotenti rispetto all’applicazione sull’architettura, ma questa mancanza sembra l’esatto contraltare della mostra di due anni fa.

Per Lokko l’architettura era una pianta morta, per Ratti l’architettura è un piccolo seme potenzialmente vivo.

Quanto la prima mostra era feroce contro gli architetti, tanto la seconda è accomodante, è speranzosa, di una speranza forse ingenua, come se dovessimo davvero credere che la tecnologia possa risolvere il nostro futuro, ma che in effetti è difficile da confutare, visto che il futuro nessuno lo conosce e gli avanzamenti tecnologici ci hanno portati fino a qui (ognuno poi può giudicare questo “qui” in maniera negativa o positiva).

 

In questo senso è difficile giudicare la mostra di Ratti, perché è sfuggente, sembra un catalogo di supposte meraviglie, che però parlano di altro, ci sfiorano e poi ci conducono in altri campi: emblematico, in questo senso, è il Leone d’Oro a Diller Scofidio + Renfro per Canal Cafè, ossia un dispositivo di depurazione delle acque lagunari che può raccontare numerose riflessioni (riuso di risorse, sperimentazioni alimentari, adattabilità alle difficoltà ambientali), ma che non è uno spazio, non è architettura, è una sorta di scultura macchinica che imprigiona la natura dentro serbatoi artificiali per produrre un bene non essenziale, come il caffè espresso.

 

 

Quello che rimane più definito nella Biennale di Ratti, allora, sono quei pochissimi momenti in cui appare l’architettura che, forse per caso, si trovano all’inizio, a metà e alla fine del percorso espositivo dell’Arsenale:

TERMS and CONDITIONS, di Transsolar (e con l’opera Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto), che immerge i visitatori nella perfetta sintesi dell’incoerenza impiantistica subìta dalle città, una rappresentazione perfetta di un territorio di disuguaglianze (che potrebbe riagganciarsi, in questo senso, alle riflessioni della Biennale del 2023): una stanza buia, riscaldata in maniera insopportabile da unità esterne di climatizzatori, circolo vizioso che avviene nei tessuti urbani, dove lo spazio pubblico, già surriscaldato dai materiali minerali, viene investito da centinaia di migliaia di getti di aria calda;

Speakers’ Corner, di Christopher Hawthorne, Johnston Marklee, Florencia Rodriguez, una vertiginosa arena capace di insinuarsi tra i pilastri delle Corderie in un delicato, ma dirompente equilibrio, che spinge le persone ad arrampicarsi fino al tetto dell’edificio, a vedere la mostra da una prospettiva insolita, come a distaccarsi dal percorso, così fitto, così caotico, per trovare finalmente un momento di riflessione;

Deserta Ecofolie, di Pedro Ignacio Alonso e Pamela Prado, che mettono in mostra una micro architettura, di dimensioni minute ma di grande complessità, capace di affrontare le condizioni climatiche estreme del deserto di Atacama; una piccola casa, che ci fa tornare a riflettere su cosa sia il comfort, su cosa sia necessario per vivere, su cosa significhi abitare, su quale rapporto vogliamo creare fra il dentro e il fuori.

 

Sono tre momenti che ci ricordano che in una mostra di architettura si dovrebbe esibire lo “spazio”, ossia la maniera con la quale intendiamo caratterizzare un vuoto.

In questo senso, a più di 15 anni dalla mostra curata da Kazuyo Sejima, ci troviamo a rivalutare le grandi installazioni di quella edizione della Biennale che, nonostante molti difetti, cercava di trovare strategie per portare lo spazio a Venezia.

 

La curatela di una mostra, poi, dovrebbe spingere alla selezione e una esposizione così enorme, come la Biennale, necessita forse, più che di addizioni, di sottrazioni; è chiaro che la quantità smisurata di dati del nostro mondo contemporaneo, alla quale ci siamo ormai assuefatti, ha il valore della molteplicità, della possibilità, della scoperta quasi casuale, ma è forse ancor più necessario oggi presentare una posizione chiara, sintetica, argomentabile, criticabile.

Ratti sembra voler mettere in mostra tutto, lasciando che in questo tutto emergano, quasi darwinianamente, i temi e i progetti che si dimostreranno, nei prossimi anni, più adatti a interfacciarsi con la realtà del futuro: non scegliendo avrà, forse, colto la direzione che verrà intrapresa.

Koolhaas, nel 2014, per esempio, scelse una via opposta, estremamente didascalica ma molto sintetica, che imponeva una considerazione a ogni visitatore, chiedendosi quali fossero gli elementi caratterizzanti, nel corso della storia, dell’architettura stessa e per questo fu capace di avviare un percorso critico, e criticabile, molto chiaro.

 

D’altronde, volendo esporre un grande numero di opere, coerenti tra loro grazie a una curatela leggera, ma estremamente palpabile, ci si potrebbe ispirare alla sala del pittore Gabriel Bella alla Fondazione Querini Stampalia, che riempie il vuoto con decine di vedute di Venezia nel 700, in un impetuoso vortice visuale, che ci trasporta direttamente in una Venezia storica eppure attualissima, capace di rendere tangibili immaginari ormai persi (la laguna ghiacciata, per esempio).

 

Usciamo da questa ultima edizione della Biennale, insomma, un po’ frastornati, senza capire fino in fondo quale sia il messaggio che il curatore ci vuole lasciare, a parte forse quello che prova a far sposare il progresso tecnologico, esterno alla disciplina, al campo dell’architettura, sperando che da questo connubio possa emergere una pratica, un nuovo approccio, come fece OMA trent’anni fa.

 

Anche i padiglioni nazionali sembrano non avere ben chiaro cosa portare in mostra, ma alcuni di questi riescono comunque ad avviare delle riflessioni sul ruolo dell’architettura in un complesso contesto internazionale o, almeno, a portare elementi progettuali suggestivi:

– il padiglione spagnolo, con un allestimento molto curato, seppur un po’ retorico (la bilancia come metafora), mostra, come in ogni edizione della mostra, un livello qualitativo medio dei progetti altissimo, ma forse non riesce a fornire una visione globale che possa investire paesi in cui la cultura architettonica non sia così elevata;

– il padiglione statunitense riconfigura lo spazio esterno dell’edificio, riuscendo a costruire un ambiente minimo, ma accogliente, per l’incontro delle persone, una proiezione domestica in un contesto pubblico;

– il padiglione brasiliano trasforma il vuoto interno in un grande oggetto/spazio, un enorme tavolo che è struttura, supporto, interfaccia, sovvertendo le maniere con le quali normalmente si gestiscono i rapporti spaziali tra arredo e architettura;

– il padiglione svizzero sovrappone due layout spaziali distinti in una sorta di incidente architettonico, che fa emergere piccoli luoghi residuali, che mettono in tensione gli spazi interni riconfigurando completamente il padiglione stesso, riportando all’attualità la storia, femminile, di un progetto dimenticato di Lisbeth Sachs;

– all’esterno degli spazi espositivi di Arsenale e Giardini, il padiglione del Togo porta storie di brutalismi esotici all’interno di uno squero, uno spazio artigianale di commovente poesia, grazie alle sue inusuali trasparenze, alle grandi vetrate che portano una preziosa luce nelle nascoste dimensioni dell’edificio;

– il padiglione del Bahrain, infine, premiato con il Leone d’Oro, forse riesce a cogliere più di ogni altro il tentativo di trovare soluzioni tecnologiche ai problemi climatici attuali, proponendo una applicazione in uno spazio architettonico, ma, per raggiungere il risultato, guarda indietro, più che avanti, ai tradizionali metodi passivi, tipici della regione: deforma lo spazio interno dell’edificio, ne abbassa il baricentro, ci costringere a riprendere le misure dell’intorno e accoglie gli impianti come una parte congruente dell’architettura.

 

Foto dell’autore.

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